Last Updated on Giugno 12, 2020
Di: Avv. Wanda Falco
L’art. 2389 c.c., rubricato “compensi degli amministratori”, prevede che i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo:
- sono stabiliti all’atto della loro nomina o dall’assemblea;
- possono essere costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall’attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione;
- sono stabiliti dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale, nel caso in cui si tratti di amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto.
Tale norma va letta in combinato disposto con quella di cui all’art. 2364 n. 3 c.c. secondo cui l’assemblea ordinaria nelle società prive di consiglio di sorveglianza determina il compenso degli amministratori se non è stabilito dallo statuto.
Da tale disciplina discende che la carica di amministratore si presume a titolo oneroso. Bisogna, pertanto, capire se sia legittima la clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico e cosa accade nel momento in cui non sia stato determinato alcun compenso con delibera dell’assemblea.
Come vedremo, a seconda della natura che si riconosce al rapporto tra l’amministratore e la società discendono alcune conseguenze sia relativamente alla possibile gratuità della carica sia per ciò che concerne la natura del credito vantato dall’amministratore nei confronti della società e la pignorabilità del suo compenso.
Vediamo, pertanto, nel dettaglio di cosa si tratta.
La possibile gratuità dell’incarico
È ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il rapporto che lega l’amministratore alla società sia un rapporto di immedesimazione organica e non un rapporto di lavoro. Come chiarito dalla Suprema Corte (Cass. S.U. 1545/2017), infatti, l’amministratore è il “vero egemone dell’ente sociale” e a lui spetta la gestione dell’impresa in via esclusiva (sul punto si veda il nostro approfondimento “Amministratori e società: natura giuridica del rapporto e compatibilità con il lavoro subordinato”).
Dall’affermazione della natura societaria del rapporto tra amministratore e società discendono alcune conseguenze.
In particolare, la giurisprudenza desume l’inapplicabilità dell’art. 36 Cost. e la legittimità della previsione statutaria della gratuità delle funzioni dell’amministratore: “è certamente lecita la clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico” (Cass. 15382/2017; Cass. 285/2019, Cass. 27335/2019)
In altre parole, l’amministratore con l’accettazione della carica acquisisce il diritto a essere compensato per le prestazioni svolte. Tuttavia, il diritto al compenso deve ritenersi un diritto disponibile: dunque esso può anche essere derogato da una clausola dello statuto della società che lo condizioni al conseguimento di utili ovvero sancisca la gratuità dell’incarico. In tal caso non può trovare applicazione la regola dettata nell’articolo 36 della Costituzione, relativa al diritto del lavoratore di percepire una retribuzione proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro prestato, la cui portata applicativa è limitata al lavoro subordinato (Trib. Milano, sez. specializzata in materia di impresa, 9762/2017).
La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore
Il diritto al compenso oltre che oggetto di deroga da parte dello statuto della società, può essere anche oggetto di rinuncia da parte dell’amministratore.
Come deve essere fatta la rinuncia al compenso?
La rinuncia non è desumibile da un mero comportamento inerte dell’amministratore, ma è necessario un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà abdicativa.
Si pensi al caso dell’amministratore, membro dell’assemblea dei soci quale socio fondatore, che in 14 anni di incarico non aveva mai chiesto che fosse posta all’ordine del giorno la determinazione del compenso e aveva atteso oltre quattro anni dalla cessazione della carica e dalla fissazione del compenso in favore del nuovo amministratore prima di sollecitare la liquidazione del compenso. Da tale comportamento si può senza dubbio desumere una volontà abdicativa del diritto al compenso (Cass. 22802/2019).
Analogamente è stato escluso il diritto al compenso nel caso dell’amministratore che durante l’espletamento del mandato non lo aveva mai richiesto ed era in procinto di acquistare la società, circostanza di cui la mancata pattuizione del compenso era logico corollario: i compensi non percepiti quale amministratore sarebbero comunque a lui confluiti in termini di utili della società che stava acquistando (Cass. 17363/2018).
Altre conseguenze del rapporto di immedesimazione organica dell’amministratore con la società
Dalla natura societaria del rapporto tra amministratore e società discendono anche altre conseguenze oltre all’inapplicabilità dell’art. 36 Cost. e alla possibile gratuità dell’incarico.
Si segnalano, in particolare, la natura chirografaria del credito dell’amministratore nonché la pignorabilità senza limiti del suo compenso.
a. Natura chirografaria del credito
In caso di fallimento della società l’amministratore può chiedere l’ammissione allo stato passivo nel caso in cui sia creditore nei confronti della società per il pagamento del compenso.
Tale credito è di natura chirografaria e ad esso non trova applicazione l’art. 2751bis n. 2 c.c. che prevede un privilegio generale sui beni mobili per i crediti riguardanti “le retribuzioni dei professionisti e di ogni altro prestatore d’opera intellettuale”.
La prestazione dell’amministratore di società non è inquadrabile nella prestazione d’opera intellettuale o nel contratto d’opera ex art. 2222 c.c.: di quest’ultimo, infatti, non presenta gli elementi del perseguimento di un risultato con la conseguente sopportazione del rischio e l’opus che l’amministratore si impegna a fornire non è determinato dai contraenti preventivamente né è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività di impresa (Cass. 22046/2014; Cass. 4769/2014; Cass. 4406/2017).
L’amministratore, infatti, non è legato alla società da un rapporto di lavoro, ma da un rapporto societario, di immedesimazione organica caratterizzato da poteri organizzativi autonomi dei fattori di produzione.
Inoltre, la funzione di amministratore porta ad escludere il privilegio del credito per una ragione di equità: chi ha concorso a provocare la crisi d’impresa non può essere privilegiato rispetto agli altri creditori (Trib. Ivrea, decreto di rigetto dell’opposizione allo stato passivo del 16/12/2010).
b. Pignorabilità senza limiti del compenso
L’art. 545 c.p.c., in materia di crediti impignorabili, stabilisce che “le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento possono essere pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato; tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni ed in eguale misura per ogni altro credito”.
È chiaro che tale disposizione non possa trovare applicazione ai compensi degli amministratori in quanto compensi derivanti da un rapporto societario e non lavorativo, come definitivamente stabilito dalla Cassazione a Sezioni Unite 1545/2017.
Conclusioni
Qualificare come rapporto societario il vincolo che lega l’amministratore alla società ha significativi risvolti in termini di disciplina da applicare al compenso a questi spettante. Ciò, infatti, consente di prevedere la gratuità della carica all’interno dello statuto nonché di desumere la rinuncia al compenso da parte dell’amministratore in presenza di comportamenti concludenti dai quali possa evincersi la sua volontà abdicativa. Non solo. Non essendo qualificabile come reddito da lavoro, il compenso è pignorabile senza limiti e l’eventuale credito che egli vanta nei confronti della società ha natura chirografaria, non potendo essere assistito da cause legittime di prelazione.
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