La trasferta del dipendente: profili disciplinari, orario di lavoro e Covid-19

Last Updated on Maggio 20, 2020

Di: Avv. Wanda Falco

La trasferta è uno strumento con cui il datore di lavoro dispone il temporaneo mutamento del luogo della prestazione lavorativa al fine di soddisfare determinate esigenze aziendali temporanee, con ritorno del dipendente presso la sede di lavoro originaria (sul trasferimento del dipendente, mutamento del luogo della prestazione connotato da stabilità/definitività, si veda il nostro approfondimento “ Il trasferimento del dipendente: un potere a servizio delle esigenze dell’impresa ”).

Si tratta di un istituto la cui regolamentazione è ricavabile prevalentemente dalla contrattazione collettiva e dalla giurisprudenza e a cui sono connesse alcune questioni piuttosto interessanti; si pensi, ad esempio, all’inclusione o meno del tempo di viaggio nell’orario di lavoro, alle conseguenze per il dipendente che rifiuti di andare in trasferta o che commetta false attestazioni degli orari della stessa nonché alle precauzioni adottate durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.

Nozione di trasferta

La trasferta è disposta unilateralmente dal datore per rispondere ad esigenze di servizio transitorie e contingenti, non prevedibili al momento dell’assunzione. Essa si caratterizza, come anticipato, per la temporaneità della permanenza del dipendente in altra sede aziendale, restando fermo il legame funzionale con il luogo “normale di lavoro”. 

Secondo la giurisprudenza la nozione di trasferta è caratterizzata dal trasferimento del lavoratore in un luogo diverso da quello abituale per svolgere l’attività lavorativa, nonché dalla temporaneità del mutamento del luogo di lavoro, dalla necessità che la prestazione lavorativa sia effettuata in esecuzione di un ordine di servizio del datore di lavoro e dalla irrilevanza del consenso del lavoratore (Cass. 20833/2015).

In genere, la contrattazione collettiva prevede la corresponsione di una indennità di trasferta al fine di compensare il lavoratore per il disagio, anche economico, che deriva dall’esecuzione della stessa.

Il tempo di viaggio per andare in trasferta è orario di lavoro?

Un aspetto interessante della trasferta è stabilire se possano essere considerate quale orario di lavoro le ore di viaggio effettuate.

Sulla questione si è pronunciato anche il  Ministero del lavoro con Interpello n. 15/2010  che ha escluso le ore di viaggio per trasferta dal computo dell’orario di lavoro sulla base della seguente argomentazione.

Il D.lgs. 66/2003 definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”: i criteri che definiscono, dunque, l’orario di lavoro sono non solo la presenza al lavoro del dipendente, ma anche la sua messa a disposizione del datore nonché l’esercizio della sua attività o delle sue funzioni.

Nonostante il D.lgs 66/2003 adotti una nozione di orario di lavoro più ampia e sicuramente più moderna rispetto a quella di cui alla legislazione del 1923 (R.D. 1955 e R.D. 1956/1923, che parlavano di “lavoro effettivo”), l’art. 8 ha confermato l’esclusione dall’orario di lavoro del tempo impiegato per recarsi al lavoro, non trattandosi di tempo impiegato nello svolgimento dell’attività lavorativa vera e propria o di un lasso di tempo in cui il lavoratore risulta “a disposizione” del datore di lavoro.

Da ciò il Ministero del Lavoro ha dedotto che il tempo impiegato dal lavoratore per raggiungere la sede di lavoro durante la trasferta non costituisca esplicazione dell’attività lavorativa considerato anche che il disagio psico-fisico e materiale che deriva al lavoratore è assorbito dall’indennità di trasferta

Nello stesso senso si è pronunciata anche la giurisprudenza secondo cui il tempo che il lavoratore impiega per raggiungere il luogo di lavoro durante il periodo della trasferta non rileva ai fini del computo del monte orario della prestazione lavorativa, tenuto conto che durante il tragitto il dipendente non risponde ad alcuna direttiva, né a particolari prescrizioni datoriali

Tale tempo rientra nell’attività lavorativa vera e propria (con sommatoria al normale orario di lavoro) solo qualora sia funzionale rispetto alla prestazione. Tale funzionalità sussiste quando il tempo impiegato per portarsi sul luogo di lavoro rappresenti una mera esecuzione degli ordini datoriali e dell’assetto organizzativo aziendale, afferente alle modalità operative e logistiche dell’attività. Si pensi al caso in cui il dipendente, obbligato a presentarsi alla sede dell’impresa, sia inviato, di volta in volta, in varie località per svolgere la prestazione lavorativa (Cass. 5701/2004; Trib. Salerno 17/01/2018). 

Il lavoratore può rifiutarsi di andare in trasferta?

Altro profilo da approfondire è sicuramente quello relativo alla possibilità o meno del lavoratore di rifiutare le trasferte. 

Come anticipato, la caratteristica fondamentale della trasferta è proprio la temporaneità dell’assegnazione del lavoratore ad altra sede su disposizione unilaterale del datore, essendo irrilevante che il dipendente abbia manifestato la propria disponibilità o il proprio consenso.

Sul punto si è pronunciata recentemente anche la Cassazione stabilendo che è legittimo il licenziamento del dipendente che rifiuti sistematicamente di andare in trasferta adducendo come scusa incompatibili condizioni di salute, rivelatesi inidonee a impedire l’allontanamento periodico. 

Nel caso di specie tale rifiuto configurava un’ipotesi di insubordinazione per ripetuto e ingiustificato contravvenire alle direttive organizzative aziendali a fronte della disponibilità alle trasferte che costituiva un elemento essenziale della prestazione lavorativa. Tale disponibilità, manifestata dal dipendente già all’atto dell’assunzione, unitamente all’esigenza di espletamento dell’attività su scala internazionale e con cantieri esterni, legittimava la richiesta datoriale (Cass. 6896/2018).

Trasferte e false attestazioni 

Frequente, purtroppo, è il caso di dipendenti che attestino falsamente gli orari di inizio e fine trasferta nel compilare i moduli destinati al pagamento delle relative indennità. 

Si pensi alla lavoratrice di una nota azienda del settore aeronautico licenziata per giusta causa per aver ripetutamente indicato orari di inizio e di fine trasferta diversi da quelli effettivi, così da fruire del corrispondente e più favorevole trattamento economico, e per aver acquistato direttamente, in violazione di disposizioni aziendali, i biglietti relativi a 11 trasferte.

La Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento trattandosi di una condotta che integra gli estremi del delitto di truffa (art. 640 c.p.) e che per la gravità e reiterazione è idonea a ledere il vincolo fiduciario (Cass. 6095/2020).

Stesso dicasi per il caso in cui il dipendente chieda rimborsi per trasferte non effettuate.

Si segnala, a tal proposito, la pronuncia che ha confermato la legittimità del licenziamento del direttore di filiale per avere richiesto, ed in parte ottenuto, rimborsi per trasferte mai fatte. Sul punto i giudici hanno chiarito che la particolarità dei fatti addebitati, riferibili ad un lungo arco temporale, la natura dell’attività lavorativa e la particolare qualifica rivestita erano incompatibili con la permanenza in servizio del dipendente discendendo dagli stessi l’inevitabile rottura del vincolo fiduciario, che, per il settore bancario richiede una valutazione più rigorosa rispetto ad altri settori lavorativi (Cass. 7096/2012).

Covid-19: sospensione delle trasferte

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha reso necessari, per contenere il rischio di contagio, interventi restrittivi che inevitabilmente hanno inciso anche sulle trasferte di lavoro. 

Nella cosiddetta “fase 1”, il DPCM 9 marzo e quello del 22 marzo 2020 hanno disposto il divieto di ogni spostamento delle persone fisiche salvo che per comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute.

Gli stessi limiti permangono anche nella fase 2 avviata dal DPCM del 26 aprile (eccezion fatta per la possibilità di fare visita ai congiunti purché lo spostamento avvenga nell’ambito della stessa regione).

Sia il DPCM del 22 marzo che quello del 26 aprile, inoltre, dispongono che le aziende le cui attività non siano sospese sono tenute a rispettare i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali e poi integrato il 24 aprile. 

Tale protocollo prevede la sospensione e l’annullamento di tutte le trasferte e i viaggi di lavoro nazionali e internazionali anche se già concordate e organizzate.

Conclusioni

La trasferta è uno strumento con cui il datore di lavoro dispone il mutamento temporaneo della sede di lavoro per far fronte ad esigenze aziendali transitorie e contingenti. 

Abbiamo visto come tendenzialmente il tempo di viaggio per raggiungere la diversa sede non rientri nell’orario di lavoro e quali sono le conseguenze per i dipendenti che si oppongono ingiustificatamente alla trasferta o che addirittura falsificano le attestazioni per fruire di trattamenti economici più favorevoli. 

Anche tale istituto è stato interessato dalle restrizioni connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19 in quanto sospendere anche le trasferte di lavoro è indispensabile per ridurre al minimo gli spostamenti e per tutelare la salute dei dipendenti.

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