Licenziamento per superamento del comporto: profili interessanti per le imprese.

Last Updated on Novembre 29, 2023

Il periodo di comporto è un arco temporale durante il quale il dipendente, assente per malattia o infortunio, ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Come previsto dall’articolo 2110 comma 2 c.c., decorso tale periodo, il datore di lavoro può procedere al licenziamento.

Il legislatore, dunque, ha previsto «un punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale» (Cass. SS.UU. 12568/2018).

Si tratta di un’ipotesi di recesso dotata di una disciplina specifica distinta da quella del licenziamento per motivo oggettivo. Infatti, una volta che il periodo di comporto sia trascorso, tale circostanza diviene di per sé sufficiente a legittimare il licenziamento a prescindere dall’esistenza di una reale incompatibilità fra le prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa o dall’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.

Sono molteplici i profili interessanti per le imprese e su alcuni di questi la Cassazione è tornata a pronunciarsi di recente.

Licenziamento non intimato subito dopo il superamento del comporto

Un aspetto su cui anche di recente si è pronunciata la Suprema Corte è la necessità o meno che il licenziamento sia irrogato immediatamente dopo l’avvenuto superamento del periodo di comporto.

In altre parole, ci si chiede se il datore di lavoro possa prendersi del tempo – dopo il superamento del comporto – per valutare l’opportunità del recesso.

Sembra consolidato l’orientamento secondo cui mentre nel licenziamento disciplinare vi è l’esigenza di immediatezza del recesso volta a garantire la pienezza del diritto di difesa del dipendente, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto «l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della sua presenza in rapporto agli interessi aziendali» (Cass. 22755/2023).

In sostanza, il datore di lavoro può recedere dal rapporto non appena terminato il periodo di comporto, ma ha, altresì, la facoltà di attendere il rientro in servizio per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo aziendale. Solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l’eventuale prolungata inerzia datoriale può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al licenziamento e può ingenerare un affidamento in buona fede del dipendente sulla prosecuzione del rapporto.

Spetta in ogni caso al lavoratore dimostrare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza al punto che si possa dedurre la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto (Cass. 24739/2017; Cass. 7849/2019; Cass. 18960/2020).

Si pensi, ad esempio, al caso del dipendente che aveva lamentato la tardività del licenziamento intimato a distanza di mesi dalla maturazione del periodo di comporto. Sul punto i giudici hanno ritenuto che il tempo trascorso tra il superamento del periodo di comporto e l’intimazione del licenziamento era, invece, giustificato in parte dalla circostanza che il rientro in servizio era avvenuto nel periodo estivo in cui l’attività amministrativa della società era sospesa e in parte dalla volontà del datore di verificare la compatibilità della malattia con la prosecuzione dell’attività. In tale periodo, infatti, si era verificata un’ulteriore assenza di 2 mesi dovuta alla medesima malattia, assenza che aveva compromesso in maniera irreversibile la prosecuzione del rapporto (Cass. 18960/2020).

Analogamente la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato 4 mesi dopo il superamento del comporto: in quel periodo il dipendente aveva lavorato per soli 20 giorni, frammentati da ulteriori periodi di malattia ed assenze ad altro titolo. Da tali circostanze il datore aveva desunto l’incompatibilità del lavoratore con le esigenze aziendali (Cass. 7849/2019).

Computabilità nel comporto delle assenze per malattia professionale o infortunio sul lavoro

In base al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili alla nozione di infortunio o malattia di cui all’art. 2110 c.c. e sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di comporto (Cass. 5749/2019; Cass. 26498/2018).

Perché l’assenza per malattia o infortunio possa non entrare nel computo del periodo di comporto non è sufficiente che si tratti di malattia o infortunio di origine professionale, meramente connessi cioè alla prestazione lavorativa, ma è necessario che in relazione a tale evento e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore per violazione degli obblighi di salute e sicurezza ex art. 2087 c.c.

Ciò in quanto solo in quest’ultimo caso l’impossibilità della prestazione lavorativa risulta imputabile proprio alla condotta della parte a favore della quale la prestazione è diretta e, quindi, non è possibile computare le relative assenze nel periodo di comporto.

Chiaramente il lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, ha l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro nonché il nesso di causalità tra l’uno e l’altro. Qualora il lavoratore abbia assolto all’onere probatorio a suo carico, sarà il datore di lavoro a dover provare di avere adempiuto all’obbligo di sicurezza, adottando tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia o l’infortunio del dipendente non sia ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi.

Di recente, ad esempio, la Cassazione ha confermato la legittimità dell’inclusione nel periodo di comporto dei giorni di assenza per infortunio dell’addetta alla mensa dovuti allo scoppio di una vetrinetta scaldavivande. Si era trattato, infatti, di un evento assolutamente imprevedibile, come tale non riconducibile alla responsabilità del datore, tenuto conto del grado di diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali (Cass. 11136/2023).

In una precedente pronuncia la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva erroneamente escluso il superamento del comporto essendosi limitata ad accertare che la patologia alla caviglia sinistra lamentata dal dipendente era causalmente e direttamente collegata all’infortunio subito. I giudici di merito non avevano verificato la ricorrenza di una responsabilità datoriale nell’omissione delle misure necessarie per evitare l’evento e, dunque, avevano trascurato il profilo dell’inadempimento dell’obbligo di protezione imposto dall’art. 2087 c.c., accertamento necessario per poter escludere dal comporto le assenze per infortunio sul lavoro (Cass. 2527/2020).

Rigetto della richiesta di trasformazione delle assenze per malattia in ferie

Altra questione dibattuta è quella relativa alla possibilità di rigettare la richiesta del dipendente di trasformare le assenze per malattia in ferie, formulata al fine di scongiurare il superamento del comporto.

Come ribadito dalla Cassazione, il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. A tale facoltà non corrisponde, però, un obbligo del datore di lavoro di accogliere la richiesta ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa concrete ed effettive, in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti nonché nel rispetto dei principî generali di correttezza e buona fede (Cass. 26997/2023).

Dunque, il datore di lavoro, nell’esercitare il potere conferitogli dall’art. 2109 comma 2 c.c. di stabilire la collocazione temporale delle ferie armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore, deve fare una valutazione che tenga conto anche della posizione del lavoratore esposto alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto.
Resta inteso che un tale obbligo non è ragionevolmente configurabile qualora il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del comporto come nel caso in cui le parti sociali abbiano previsto al tal fine il collocamento in aspettativa non retribuita (Cass. 7566/2020).

Conclusioni

Il licenziamento per superamento del comporto è un’ipotesi di recesso soggetta a una disciplina peculiare non riconducibile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Tale disciplina, infatti, è finalizzata a realizzare un contemperamento di interessi contrapposti, riconoscendo al dipendente il diritto di curarsi senza perdere mezzi di sostentamento per un arco di tempo ritenuto congruo e tollerabile, superato il quale diventa irragionevole pretendere che il datore continui a farsi carico delle conseguenze che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale.

Toffoletto De Luca Tamajo è a Vostra disposizione per supportarvi qualora si intenda procedere ad un licenziamento per superamento del comporto e per fornire tutti i chiarimenti necessari.

Per maggiori informazioni: comunicazione@toffolettodeluca.it
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