Buoni pasto: alcune conseguenze della natura non retributiva

Last Updated on Ottobre 13, 2021

Di: Avv. Wanda Falco

Il buono basto (o ticket restaurant) è un documento, in formato cartaceo o elettronico, che dà diritto a un servizio sostitutivo di mensa aziendale per un importo pari al suo valore.

Si tratta di un benefit con cui il datore di lavoro assicura ai propri dipendenti la somministrazione di pasti da parte di pubblici esercizi convenzionati.

La relativa disciplina è stata riformata con il Decreto del Ministero dello sviluppo economico n. 122 del 7 giugno 2017 che specifica che i buoni pasto sono utilizzabili da:

  • prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale;
  • soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato.

Inoltre, i buoni pasto:

  • non sono cedibili, commercializzabili e convertibili in denaro;
  • sono cumulabili nel limite di 8;
  • possono essere utilizzati esclusivamente dal titolare per l’intero valore.

Si segnala, inoltre, che la legge di bilancio 2020 ha previsto che dal 1° gennaio 2020 i buoni pasto elettronici sono più convenienti di quelli cartacei in quanto l’importo giornaliero massimo che non concorre a formare il reddito di lavoro del dipendente è elevato da 7 a 8 euro ove siano erogati in formato elettronico ed è ridotto da 5,29 a 4 euro in caso di buoni cartacei (art. 1, comma 677, L. 160/2019).

Sono sorti alcuni dubbi circa la natura (retributiva o assistenziale) dei buoni pasto, questione dalla cui risoluzione discendono alcune conseguenze in materia, ad esempio, di smart working, permessi per allattamento e responsabilità solidale in materia di appalti.

Vediamo, pertanto, nel dettaglio cosa dice la giurisprudenza.

Buoni pasto e smart working

Soprattutto a seguito della particolare risonanza data al lavoro agile durante l’emergenza Coronavirus, ci si chiede se il lavoratore in smart working abbia diritto comunque ai buoni pasto.

Sulla questione si è recentemente pronunciato il Tribunale di Venezia che, in linea con la giurisprudenza consolidata, esclude la natura di “elemento normale” della retribuzione, trattandosi di un’agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Trib. Venezia, 8 luglio 2020, n. 3463; Cass. 16135/2020; Cass. 14388/2016).

In altre parole, il buono pasto è un beneficio che consente, nell’ambito dell’organizzazione di lavoro, la conciliazione delle esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto i cui costi vengono assunti dal datore di lavoro. Ciò al fine di garantire il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa al lavoratore obbligato a rendere la prestazione in un orario comprensivo della fisiologica pausa pranzo e in un luogo, la sede di lavoro, diverso dalla propria abitazione.

Non si tratta, quindi, di un elemento della retribuzione né di un trattamento necessariamente conseguente alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma di un beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro.

L’esigenza di assicurare al lavoratore la fruizione del pasto, dunque, non ricorre nel caso in cui la prestazione lavorativa sia svolta in regime di smart working essendo in tal caso il dipendente libero di organizzare in piena autonomia i tempi di svolgimento del lavoro: i buoni pasto, dunque, non rientrano nella nozione di trattamento economico e normativo, che deve essere garantito in ogni caso al lavoratore in smart working ex art. 20 Legge n. 81 del 2017.

A tale riguardo occorre precisare, inoltre, che l’articolo 6 del D.l. 333/1992 (convertito con legge 359/1992) esclude, in linea generale, la connotazione retributiva dell’indennità di mensa, in quanto servizio sociale predisposto nei confronti della generalità dei lavoratori, salvo che la contrattazione collettiva non ne preveda una diversa qualificazione (“Salvo che gli accordi ed i contratti collettivi, anche aziendali, dispongano diversamente, stabilendo se e in quale misura la mensa è retribuzione in natura, il valore del servizio di mensa, comunque gestito ed erogato, e l’importo della prestazione pecuniaria sostitutiva di esso, percepita da chi non usufruisce del servizio istituito dall’azienda, non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato”).

Considerato che la disciplina dello smart working – al di là delle tutele garantite dalla legge – è rimessa all’accordo delle parti, a livello collettivo o individuale, è possibile che l’accordo aziendale preveda che il buono pasto spetti ugualmente, ossia anche nei giorni di lavoro in modalità “agile”.

Diversamente, non vi sarebbero i presupposti per il riconoscimento dei buoni pasto ai lavoratori “agili”.

Buoni pasto e permessi per allattamento

Altra problematica concerne la spettanza dei buoni pasto alla lavoratrice madre che fruisca dei permessi per allattamento.

Sul punto la Suprema Corte ha spiegato che il buono pasto non è un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, ossia legato alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma un beneficio connesso alle modalità concrete del suo svolgimento orarioe, quindi, alla relativa organizzazione: esso, infatti, serve a consentire al lavoratore il recupero delle energie psico-fisiche mediante una pausa da utilizzare per l’eventuale consumazione del pasto, laddove non sia organizzato un servizio mensa.

Dunque, il buono pasto non spetta per il fatto stesso di aver prestato l’attività lavorativa, ma in tanto spetta in quanto la durata della giornata lavorativa ricomprenda anche le ore destinate alla pausa pranzo (Cass. 31137/2019).

Il comma 1 dell’art. 8, d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, infatti, stabilisce che “qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo”.

In sostanza, se l’orario di lavoro ha durata superiore a 6 ore il lavoratore ha diritto alla pausa pranzo e di conseguenza al buono pasto.

Pertanto, la dipendente che fruisce dei permessi per allattamento e non raggiunge le 6 ore di lavoro effettivo, non ha diritto alla pausa pranzo e, dunque, non matura il diritto al buono pasto: ciò in quanto le ore di permesso godute per tali motivi sono equiparate dall’art. 39 D.lgs. 151/2001 alle ore di lavoro solo ai fini retributivi, mentre non rilevano per il godimento di elementi come il buono pasto, che sono agevolazioni di carattere assistenziale collegate al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale. Inoltre, ciò che conta ai fini della fruizione della pausa pranzo e quindi del riconoscimento del buono pasto sono le ore di lavoro effettivamente prestate (cioè quelle in cui il lavoratore è presente a lavoro) e non anche le ore di permesso per allattamento, in quanto l’esigenza di reintegrare le energie psico-fisiche sussiste solo in relazione alle prime.

Sul punto si è pronunciato anche il Ministero del lavoro con risposta a interpello n. 2/2019: sebbene secondo l’art. 39, del D.lgs. 151/2001 i riposi per allattamento debbano essere “considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”, non bisogna trascurare la ratio dell’art. 8 del D.lgs. 66/2003; la pausa pranzo, infatti, serve a consentire al lavoratore, che effettui una prestazione lavorativa superiore a 6 ore, di recuperare le energie psico-fisiche e non c’è dubbio che a tal fine si debba tenere conto di un’attività lavorativa effettivamente prestata nella quale non possono rientrare le ore di permesso per allattamento.

Da tali premesse discende che, in caso di riposi per allattamento, il buono pasto spetta alla lavoratrice la cui giornata lavorativa si articoli in almeno 6 ore al netto delle ore di riposo per allattamento.

Buoni pasto e responsabilità solidale nell’appalto

Altra questione più volte affrontata è quella relativa all’inclusione dei buoni pasto nella nozione di trattamenti retributivi oggetto di responsabilità solidale negli appalti.

In particolare secondo l’art. 29 D.lgs. 276/2003 il committente è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

La Corte di Cassazione ha sottolineato che la locuzione “trattamenti retributivi”, utilizzata nell’art. 29, deve essere interpretata in senso stretto e cioè che le somme oggetto della responsabilità solidale del committente, terzo estraneo al rapporto di lavoro tra lavoratore e appaltatore, devono avere con certezza natura retributiva ed essere corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa (Cass. 10354/2016; Cass. 10543/2016).

In tale nozione non possono rientrare i buoni pasto che, salvo diverse disposizioni di legge o di contratto, non hanno natura retributiva, come abbiamo visto. La fruizione della mensa o la consegna del buono pasto, infatti, non sono in rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa e, pertanto, non sono un elemento della retribuzione.

Si tratta, invero, “di una prestazione di natura assistenziale, collegata solo occasionalmente con il rapporto di lavoro”: il buono pasto non spetta per il solo fatto di svolgere la prestazione lavorativa, ma spetta se i tempi di lavoro effettivo siano tali da rendere necessaria una pausa per reintegrare le energie psico-fisiche (Trib. Milano 2928/2018; Trib. Milano, 1305/2018).

Conclusioni

I buoni pasto non hanno natura retributiva, salvo che la contrattazione collettiva non preveda diversamente.

Essi, infatti, costituiscono un benefit che non spetta per il mero svolgimento della prestazione lavorativa.

La funzione del buono pasto, infatti, è quella di consentire al lavoratore la fruizione del pasto nell’ambito di una giornata lavorativa che abbia una durata e un’articolazione tali da rendere necessaria la pausa pranzo.

Dalla natura non retributiva del buono pasto discende che esso non spetta al lavoratore in smart working che può gestire la giornata lavorativa in maniera flessibile né alla lavoratrice che usufruendo dei permessi per allattamento non raggiunga le sei ore di lavoro che le consentono di maturare il diritto alla pausa pranzo. Di non poco conto è anche la conseguenza dell’esclusione del valore dei buoni pasto dai trattamenti retributivi oggetto di responsabilità solidale negli appalti.

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