Dipendente no-vax: cosa può fare l’azienda?

Last Updated on Ottobre 13, 2021

Di: Avv. Wanda Falco

Da quando è iniziata la campagna vaccinale contro il Covid-19 sono ricorrenti due quesiti – forieri di dibattiti molto interessanti – tra loro strettamente connessi.

Ci si chiede, infatti, se il legislatore debba rendere obbligatorio il vaccino per tutta la popolazione e cosa possa fare il datore di lavoro per tutelare l’azienda e i propri collaboratori nei confronti di un dipendente che rifiuti di vaccinarsi.

In un campo particolarmente spinoso e così esposto all’attenzione dei media occorre procedere con cautela.

Pertanto, vediamo nel dettaglio il dibattito aperto sul punto e cosa l’azienda può fare per tutelarsi.

Sicurezza sul lavoro e vaccino anti-Covid: gli orientamenti a confronto

Il datore di lavoro è responsabile ex art. 2087 c.c. dell’adempimento degli obblighi in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro previsti nell’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Secondo l’art. 29-bis del D.L. 23/2020, “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali”.

In particolare, ricordiamo che i datori di lavoro al momento della ripresa delle attività produttive dopo il lockdown hanno dovuto garantire l’adozione di una serie di misure di sicurezza e protezione all’interno degli ambienti di lavoro quali il distanziamento, la rimodulazione degli spazi e dell’orario di lavoro, i dispositivi di protezione individuale (es. le mascherine), il ricorso al lavoro agile in forma semplificata, la sanificazione periodica dei locali, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni. Inoltre, ogni azienda ha dovuto procedere alla revisione del DVR.

Come bisogna porsi, invece, rispetto al vaccino anti-Covid?

Si tratta, come sappiamo, di uno strumento di difesa contro il virus non liberamente accessibile dai datori di lavoro (almeno per ora), essendo destinato in primis a determinate categorie di soggetti (nell’ordine: medici e operatori sanitari, ospiti e personale di RSA, soggetti ultraottantenni, soggetti affetti da particolari patologie).

Tuttavia, quando il vaccino sarà disponibile in quantità sufficienti per una vasta diffusione, potrebbe integrare il sistema di sicurezza sul lavoro. In ogni caso, anche prima, potrebbe accadere che un dipendente sia chiamato dalle autorità competenti a fare il vaccino e rifiuti di sottoporsi al trattamento.

Cosa può fare il datore di lavoro? Può richiedere/imporre la vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti che abbiano l’effettiva possibilità di sottoporvisi? In caso di rifiuto può procedere al licenziamento?

Sul punto si è aperto un ampio dibattito che può essere sintetizzato come segue.

La norma da cui far partire qualsiasi argomentazione sul tema è l’art. 32 Cost. che, nel sancire il diritto alla salute, specifica che nessun trattamento sanitario può essere imposto se non per legge.

Secondo alcuni autori (Ichino, Guariniello) la legge che impone il trattamento sanitario in questione è l’art. 2087 c.c. che prevede l’obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori. Pertanto, il datore deve pretendere che i dipendenti facciano il vaccino anti-Covid ed è legittimato al licenziamento in quanto la protezione dell’interesse alla prosecuzione del rapporto “cede di fronte alla protezione della salute altrui: quando la scelta di non curarsi determina un pericolo per la salute altrui, prevale la tutela di questa” (Ichino, Il datore di lavoro può chiudere il contratto se il dipendente si rifiuta, Corriere della Sera 29 dicembre 2020).

Pertanto, la renitenza del dipendente alla vaccinazione è suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza, che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare. E’, tuttavia, “ragionevole ritenere che l’intensità del dibattito politico in corso negli ultimi anni sull’obbligo delle vaccinazioni in generale, e su quello della vaccinazione contro il Covid-19 in particolare, possa avere un’incidenza sull’elemento psicologico indispensabile per il configurarsi della mancanza disciplinare grave: donde un’indicazione nel senso della preferibilità della qualificazione, semmai, della renitenza alla vaccinazione come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione, piuttosto che come mancanza disciplinare” (Ichino, Perché e come il dovere di vaccinarsi può nascere da un contratto di diritto privato, Il Quotidiano giuridico 8 gennaio 2021).

Accanto all’art. 2087 c.c. la norma da cui si potrebbe dedurre l’obbligo del trattamento sanitario in questione è l’art. 279 del D.lgs. 81/2008, secondo cui per i lavoratori esposti ad agenti biologici il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari fra le quali “la messa a disposizione di vaccini efficaci”.

L’art. 279, comma 2, inoltre, prevede “l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”, che impone al datore di attuare le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione, di adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

In sostanza, l’orientamento esposto ritiene che sia impensabile che il medico competente si esima dall’esprimere un giudizio di inidoneità in un’ipotesi in cui il datore di lavoro, proprio su conforme parere del medico competente, abbia messo a disposizione il vaccino, rifiutato dal lavoratore (Guariniello, Covid-19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi? Ipsoa quotidiano 29 dicembre 2020).

L’orientamento appena esposto non sembra sostenibile in quanto:

  1. la riserva di legge posta dall’art. 32 Cost. esige, secondo la dottrina costituzionalista, che la legge preveda in maniera specifica il trattamento sanitario obbligatorio: è, dunque, necessaria una normazione ad hoc specificamente diretta a imporre la vaccinazione (Mazzotta, Rifiuto del vaccino, licenziamento solo in assenza di un proficuo impiego, Il Sole24Ore 13 gennaio 2021);
  2. l’art. 279 TU sicurezza parte dal presupposto della possibilità del datore di procurarsi vaccini e metterli a disposizione dei dipendenti, cosa attualmente impossibile. Infatti, non spetta al datore di lavoro la somministrazione del vaccino, ma – come prevede il piano vaccinale predisposto dal Governo – tutta la procedura è in mano alle autorità sanitarie (e il vaccino non è inserito tra quelli obbligatori).

Da ciò consegue che, in assenza di un’espressa previsione da parte del legislatore di un obbligo a vaccinarsi contro il Covid-19, il datore di lavoro non può pretendere che il dipendente si vaccini.

Vediamo, pertanto, quale strada un’azienda dovrebbe seguire per tutelare i propri collaboratori nel caso in cui un dipendente, pur avendo la possibilità di farlo, rifiuti il vaccino.

La strada percorribile in assenza di un obbligo legale al vaccino anti-Covid

Come detto nel paragrafo precedente, l’assenza di una norma istitutiva dell’obbligo di vaccinazione anti-Covid impedisce al datore di lavoro di pretendere che il dipendente si vaccini e, conseguentemente, di procedere al licenziamento disciplinare. È chiaro che, qualora il vaccino sia reso obbligatorio per legge non ci sono dubbi sulla possibilità di considerare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso il rifiuto di vaccinarsi.

Ad ogni modo, di fronte alla notizia che un dipendente, pur avendone la possibilità, non ha accettato di vaccinarsi, il datore può ritenerlo, ex art. 2087 c.c., non idoneo a rendere la prestazione in sicurezza, essendo il vaccino una misura di protezione per sé e per la collettività.

Il datore può, dunque, “allontanarlo/esonerarlo senza retribuzione salvo che la prestazione possa essere fornita senza rischio per sé e per gli altri, il che potrebbe forse realizzarsi con uno smart working integrale, ove organizzativamente possibile” (Aldo Bottini, Inidoneo e poi licenziabile chi non si vaccina, Il Sole24Ore 12 gennaio 2021).

Nel caso in cui l’assenza dal lavoro si prolunghi eccessivamente o la sua durata sia indeterminata, arrecando pregiudizio all’organizzazione aziendale, è possibile procedere con un licenziamento per giustificato motivo oggettivo secondo i principi affermati dalla giurisprudenza in casi simili (es. carcerazione preventiva, revoca o sospensione di autorizzazioni amministrative), e salvo naturalmente il blocco dei licenziamenti attualmente in vigore.

Conclusioni

In attesa di un intervento legislativo volto a imporre la vaccinazione contro il Covid-19, il datore di lavoro non può pretendere che il dipendente si vaccini né può procedere al licenziamento disciplinare in caso di rifiuto.

Ciò non significa che l’azienda non possa mettere in campo altri strumenti per tutelare i propri collaboratori dal rischio di contagio dovuto alla condotta di dipendenti no-vax: questi ultimi saranno inidonei a rendere la prestazione in sicurezza e potranno essere esonerati senza retribuzione. Qualora l’assenza dal lavoro si prolunghi eccessivamente diventando pregiudizievole per l’organizzazione aziendale, si potrà procedere con un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

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