Il c.d. tempo-tuta è il tempo che il lavoratore impiega per indossare e dismettere un determinato abbigliamento richiesto sul luogo di lavoro.
Il tempo-tuta rientra nell’orario di lavoro?
Si tratta della domanda più frequente sul tema in quanto strettamente connessa alla questione della retribuibilità dei tempi di vestizione dei lavoratori. La risposta a questa domanda – come vedremo a breve – è che tutto dipende dalla sussistenza o meno dell’eterodirezione ovvero dall’imposizione di tempi, modi e luogo della vestizione/dismissione della divisa.
Vediamo nel dettaglio cosa dice la giurisprudenza.
La nozione di orario di lavoro
La questione relativa alla retribuibilità o meno del tempo-tuta è strettamente correlata alla nozione di orario di lavoro.
Secondo la definizione data dal D.lgs. 66/2003 l’orario di lavoro è «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni».
Tre sono, quindi, i requisiti necessari per la qualificazione dell’orario di lavoro:
1) essere al lavoro ovvero nel luogo di lavoro determinato dal datore;
2) essere a disposizione del datore di lavoro;
3) esercitare la propria attività lavorativa o le proprie funzioni.
Ulteriori chiarimenti circa la definizione di orario di lavoro sono giunti dalla giurisprudenza comunitaria che – in applicazione della Direttiva 2003/88/CE – ha escluso dall’orario di lavoro il periodo durante il quale i lavoratori dispongono della possibilità di gestire liberamente il tempo e dedicarsi ai propri interessi, includendo, invece, nell’orario di lavoro, con conseguente diritto a percepire il relativo compenso, il periodo di tempo in cui i dipendenti sono a disposizione del datore di lavoro in quanto obbligati giuridicamente ad eseguire le sue istruzioni (CGUE C-266/14).
In linea con tale ricostruzione la Cassazione ha consolidato l’orientamento secondo cui nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario per indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro solo qualora sia assoggettato al potere direttivo ovvero quando luogo e tempo delle operazioni di vestizione e svestizione siano imposti dal datore di lavoro (Cass. 33937/2023).
Dunque, nel valutare la retribuibilità del tempo-tuta bisogna distinguere il caso in cui il lavoratore abbia la possibilità di scegliere il tempo e il luogo in cui indossare la divisa (ad esempio, presso la propria abitazione prima di raggiungere la sede di lavoro) da quello in cui non abbia tale facoltà. Nel primo caso indossare e togliere la divisa è un’attività che rientra tra gli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento della prestazione lavorativa e come tale non deve essere retribuita; nel secondo caso, invece, tale operazione rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo necessario a svolgerla deve essere retribuito.
Tempo-tuta ed eterodirezione
Come ricostruito nel paragrafo precedente, il vero discrimen per stabilire se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale rientri nel lavoro effettivo o sia una mera attività preparatoria è l’eterodirezione nello svolgimento di tale operazione.
Ma da cosa si desume l’eterodirezione?
Essa può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti o dalla loro specifica funzione, quando siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili al di fuori del luogo di lavoro (Cass. 33930/2023; Cass. 25478/2023).
Quando la giurisprudenza parla di “esplicita disciplina di impresa” ritiene imprescindibile un accertamento in concreto in ordine all’esistenza o meno del potere conformativo datoriale.
A tal riguardo, si segnala il caso dei dipendenti di una società operante nel settore del trasporto ferroviario che rivendicavano la retribuzione del tempo impiegato per indossare la divisa, sostenendo che il regolamento aziendale vietasse di indossarla «in occasioni diverse dal lavoro» pena la sanzione disciplinare e che il datore avesse anche predisposto degli spogliatoi. Da tali presupposti i lavoratori avevano dedotto un implicito obbligo di indossare la divisa direttamente sul luogo di lavoro.
Considerati i dubbi interpretativi suscitati dal regolamento aziendale, i giudici di merito hanno ritenuto necessario appurare il comportamento complessivo delle parti anche successivo all’adozione del regolamento, in applicazione del criterio ermeneutico di cui all’art. 1362, comma 2, c.c. Dalle testimonianze, infatti, era emerso che il datore non aveva mai imposto ai dipendenti l’utilizzo degli spogliatoi all’inizio e alla fine del turno lavorativo, tollerando che la vestizione e la svestizione avvenissero presso l’abitazione e, quindi, che i lavoratori si presentassero in servizio già in divisa. È stato, in tal modo, escluso l’elemento dell’eterodirezione indispensabile ai fini del pagamento delle differenze retributive (Cass. 25478/2023).
Come anticipato, in alcuni casi l’eterodirezione può anche desumersi implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare e dalla funzione che essi devono assolvere.
Si pensi, ad esempio, al caso delle divise degli infermieri operanti all’interno di strutture sanitarie: per esigenze di igiene e sicurezza sia dei dipendenti che del pubblico è necessario che le divise siano indossate e dismesse sul luogo di lavoro prima dell’inizio del turno e alla fine senza mai essere portate all’esterno. Si tratta, infatti, di modalità comportamentali imposte da imprescindibili esigenze datoriali e che, come tali, sono da considerarsi tempo di lavoro da retribuire, non avendo il lavoratore la possibilità di scegliere di agire diversamente e indossare la divisa a casa (Cass. 16180/2019).
Discorso analogo per gli addetti ai servizi mensa: ragioni di igiene impongono che gli indumenti non siano in alcun modo contaminati con polveri e agenti atmosferici, per cui è improponibile indossare camice e cuffie per contenere i capelli nel tragitto verso il lavoro ed è necessario indossare gli indumenti con contiguità locale e temporale rispetto all’attività di lavoro presso la mensa (Cass. 9417/2018; Cass. 7738/2018).
A diverse conclusioni deve giungersi con riferimento ai dispositivi di protezione individuale (c.d. DPI), definiti dall’art. 74 D.lgs. 81/2008 come «qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo»
Il fatto che l’uso dei DPI sia obbligatorio per lo svolgimento della prestazione in sicurezza non è decisivo per la retribuibilità del tempo-tuta qualora nel caso di specie emerga che gli indumenti possano essere indossati e dismessi anche fuori dal luogo di lavoro e, quindi, in ambito sottratto all’eterodirezione (Cass. 9871/2019; Cass. 15763/2021; Cass. 1325/2024).
Conclusioni
Secondo la giurisprudenza consolidata ai fini della retribuibilità o meno del c.d. tempo-tuta bisogna accertare in concreto se le operazioni di vestizione e svestizione siano “eterodirette”.
È, dunque, necessaria una verifica caso per caso: qualora risulti che il lavoratore sia libero di scegliere il tempo e il luogo dell’operazione di vestizione senza alcuna imposizione del datore di lavoro, tale tempo farà parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa e non potrà essere ricondotto al tempo di lavoro effettivo né, pertanto, retribuito.
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