Una gestione efficace della diversità negli ambienti di lavoro produce numerosi benefici per le organizzazioni e per i lavoratori.
I gruppi di lavoro variegati, infatti, sono in media più performanti di quelli in cui predomina l’omologazione, in quanto collaboratori con background diversi possono dare ai team competenze ed esperienze che favoriscono lo sviluppo di idee innovative. Un contesto lavorativo attento alla diversità, poi, attrae risorse particolarmente qualificate e migliora la reputazione e l’immagine aziendale. Da qui l’importanza delle politiche di diversity&inclusion, volte a valorizzare le diversità e a promuovere l’inclusione negli ambienti di lavoro.
Uno degli ambiti cui bisogna fare senz’altro attenzione è quello della diversità religiosa che può avere impatti significativi sui rapporti di lavoro. I precetti religiosi, infatti, condizionano la vita dei fedeli prescrivendo regole comportamentali che influiscono sulle scelte di vita quotidiane e inevitabilmente sulla vita lavorativa; si pensi, ad esempio, alle festività religiose e alle pause per la preghiera che possono incidere sulla gestione dell’orario di lavoro, alle prescrizioni alimentari e al loro possibile impatto sulle mense aziendali nonché alle prescrizioni relative all’uso di indumenti tipici di un’appartenenza confessionale.
Su quest’ultima tipologia di prescrizioni si è pronunciata in più occasioni la Corte di giustizia occupandosi di casi in cui i regolamenti aziendali vietino l’uso del velo islamico e di qualsiasi altro segno esteriore dal quale si possa evincere l’appartenenza religiosa dei dipendenti. Le controversie che sono sorte hanno avuto ad oggetto l’accertamento della sussistenza di discriminazioni per religione, dirette o indirette.
Cosa si intende per discriminazioni dirette e indirette?
Per poter comprendere la portata delle pronunce della Corte di giustizia (di seguito CGUE) è necessario chiarire tali definizioni, contenute nella Direttiva 2000/78/CE finalizzata a stabilire «un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
In particolare, ai sensi della Direttiva (attuata con il D.lgs. 216/2003):
- sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi sopra elencati, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
- sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone. La differenza di trattamento, precisa la Direttiva, può non rappresentare una discriminazione laddove la disposizione, la prassi o il criterio adottati siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Chiariti questi aspetti, esaminiamo ora alcune pronunce della CGUE.
La politica aziendale di generale e indiscriminata neutralità non costituisce discriminazione diretta
Un recente caso portato all’attenzione della Corte ha riguardato una donna belga di fede musulmana che indossava il velo islamico e aveva presentato una candidatura spontanea per un tirocinio non retribuito di sei settimane.
Superato il colloquio, la società archiviava la candidatura a fronte del rifiuto della donna di conformarsi al regolamento aziendale che attuava una politica di rigorosa neutralità nei confronti della clientela imponendo ai dipendenti di non manifestare sul luogo di lavoro in alcun modo le proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche.
Un tale divieto può costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali?
La Corte, in linea con i precedenti, ha ribadito che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a) della Direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una norma interna di un’impresa privata che vieti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, non costituisce una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali qualora riguardi qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna, e tratti in maniera identica tutti i dipendenti imponendo loro una neutralità di abbigliamento.
Nel caso di specie, il regolamento aziendale legittimamente vietava a tutti i dipendenti, in maniera generale e indiscriminata, l’uso di qualsiasi segno visibile di convinzioni personali nonché l’uso di qualsiasi tipo di copricapo inclusi cappelli e berretti (C-344/20).
Il divieto di segni esteriori può, invece, costituire una discriminazione indiretta?
Uno dei casi in cui la CGUE ha affrontato la questione riguarda l’educatrice di un asilo nido che aveva iniziato a indossare il velo islamico ed era stata più volte ammonita e poi sospesa per aver contravvenuto al regolamento aziendale che vietava ai collaboratori di fare, in presenza di genitori e bambini, esternazioni di tipo politico, ideologico o religioso nonché di indossare segni visibili delle loro convinzioni personali. L’obiettivo del divieto era quello di evitare che i bambini potessero essere influenzati dagli educatori e in tal modo soddisfare l’esigenza dei genitori di garantire il libero sviluppo dei propri figli.
Nel caso in esame è stata esclusa la discriminazione diretta in quanto era emersa un’applicazione generale e indiscriminata del divieto a tutti i collaboratori che avessero contatti con bambini e genitori, a prescindere dalla fede religiosa, tant’è che la società aveva ammonito anche un’altra lavoratrice per aver indossato una croce cristiana.
La Corte, tuttavia, evidenzia che tale divieto può costituire una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che lo stesso, seppur apparentemente neutro, comporti di fatto un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia.
Statisticamente, infatti, il divieto di indossare segni esteriori delle proprie convinzioni religiose arreca pregiudizio prevalentemente alle lavoratrici di fede islamica che indossano il velo.
In tali casi, bisogna verificare se la disposizione, il criterio o la prassi da cui derivi la discriminazione indiretta siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
La volontà di un datore di lavoro di mostrare nei rapporti con i clienti una neutralità ideologica o religiosa può essere considerata legittima – in quanto riconducibile alla libertà d’impresa – nella misura in cui coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti.
Tuttavia, la semplice volontà di un datore di lavoro di condurre una politica di neutralità non è sufficiente e il carattere oggettivo della giustificazione può derivare solo da un’esigenza reale dell’imprenditore. Tale oggettività si può desumere, ad esempio, dalle legittime aspettative dei clienti o degli utenti nonché dalle conseguenze sfavorevoli che l’impresa subirebbe, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste si inseriscono.
Nel caso in esame, ad esempio, l’asilo per evitare conseguenze sfavorevoli, come l’annullamento delle iscrizioni dei bambini, ha tenuto conto del diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche e del desiderio di far educare i figli da persone che non manifestino la propria religione o le proprie convinzioni personali quando sono a contatto con i bambini, al fine di garantirne il libero sviluppo individuale (C-804/18).
Qualche considerazione sugli accomodamenti ragionevoli
Oltre alle fattispecie esaminate dalla giurisprudenza comunitaria, esistono altri casi – riscontrabili nella vita quotidiana delle imprese – in cui sia opportuno valutare il bilanciamento della libertà religiosa con le esigenze aziendali. Si pensi, ad esempio, alle pause per la preghiera, al Ramadan e alle prescrizioni alimentari dell’Islam. Si tratta di ipotesi in cui vengono in rilievo questioni attinenti all’orario di lavoro, alla sicurezza e alla gestione delle mense.
La Direttiva 2000/78/CE all’art. 5, tuttavia, parla di “accomodamenti ragionevoli” solo con riferimento alle persone con disabilità, definendoli come «provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo … a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato».
Non c’è, invece, alcun riferimento agli accomodamenti ragionevoli quali strumenti di contemperamento tra la libertà di religione e la libertà d’impresa, come anche evidenziato nelle Conclusioni dell’Avvocato generale nella causa C-157/15 (Caso Samira Achbita, anch’esso riguardante una lavoratrice musulmana che indossava il velo).
In quell’occasione fu osservato come «la ricerca concreta di possibilità di utilizzazione alternative per ciascuna singola dipendente grava il datore di lavoro di un onere organizzativo supplementare considerevole che non ogni impresa può automaticamente permettersi». Tuttavia, prosegue l’Avvocato generale, ciò non esclude che vengano cercate soluzioni individuali in funzione della situazione di fatto, fermo restando che non bisogna pretendere dal datore di lavoro uno sforzo organizzativo particolarmente elevato.È anche di questo che si occupano le politiche aziendali di diversity&inclusion, volte a valorizzare le risorse e individuare le migliori soluzioni che favoriscano l’inclusione, il rispetto della dignità di ciascuno e la piena realizzazione personale e professionale, senza tuttavia pregiudicare le esigenze e l’organizzazione aziendale.
Conclusioni
La gestione della diversità nei luoghi di lavoro è un asset fondamentale per le imprese, sempre più attente alla sostenibilità in termini ESG che passa anche per le politiche di diversity&inclusion. È, pertanto, opportuno rivolgere particolare attenzione alle problematiche attinenti alla libertà religiosa in modo da bilanciarla adeguatamente con la libertà d’impresa.
Toffoletto De Luca Tamajo è a disposizione per qualsiasi chiarimento e per supportarvi nell’individuare le soluzioni più adeguate alle esigenze aziendali nonché nell’aggiornamento delle policy esistenti e nella predisposizione di quelle nuove.
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