Nuovo 2103 c.c.: una panoramica a 4 anni dalla riforma

Last Updated on Settembre 3, 2019

Di: Avv. Wanda Falco

Con il termine Jus variandi in diritto del lavoro si intende il potere di modificazione unilaterale delle mansioni del lavoratore da parte del datore di lavoro. L’esercizio di tale potere è disciplinato dall’art. 2103 c.c. che è stato rivoluzionariamente modificato dal Jobs Act nel 2015. 

Vediamo nel dettaglio come è cambiata la disciplina.

Il mutamento “orizzontale” di mansioni 

1. Il “vecchio 2103 c.c.” e il criterio dell’equivalenza 

Come anticipato, a decorrere dal 25/06/2015 nei confronti di tutti i lavoratori subordinati si applica il nuovo art. 2103 c.c., come modificato dal D.Lgs. 81/2015.

La disciplina previgente consentiva il mutamento “orizzontale” di mansioni a condizione che le mansioni precedenti e quelle nuove fossero equivalenti: la nozione di equivalenza era stata elaborata nel corso degli anni dalla giurisprudenza in termini restrittivi e andava intesa sia nel senso di pari contenuto e valore professionale delle mansioni – considerate nella loro oggettività – sia come coerenza con il bagaglio professionale acquisito, come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore realizzato nella pregressa fase del rapporto. Il concetto di professionalità, dunque, comprendeva non solo il complesso di nozioni, esperienze e perizia già acquisite, ma anche il diritto di professionalizzarsi lavorando.

Nella vigenza della precedente norma, dunque, in caso di contestazione da parte del lavoratore, il giudice, per accertare la legittimità della modifica unilaterale da parte del datore di lavoro, non si limitava a verificare l’eguaglianza retributiva e la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento contrattuale, ma verificava anche l’equivalenza professionale. 

Come chiarito in varie pronunce dalla Cassazione, nella verifica dell’equivalenza delle mansioni assegnate al lavoratore non era sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma era necessario accertare che le nuove mansioni fossero aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali. Pertanto, le nuove mansioni potevano considerarsi equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risultasse tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consentisse di utilizzare, e anzi di arricchire, il patrimonio professionale acquisito con lo svolgimento della precedente attività lavorativa (si veda, in tal senso, Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza del 04/09/2015, n. 17623)

2. Il Jobs Act e il superamento dell’equivalenza: minori margini di manovra per i giudici

Nella sua attuale formulazione, frutto delle modifiche apportate dal D.Lgs. 81/2015, l’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

Elemento di novità è, dunque, che non si fa più riferimento al requisito dell’equivalenza tra le ultime mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione: al datore di lavoro è attribuita la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale. Ciò significa che, se in base al contratto collettivo il mutamento di mansioni non comporta alcuna variazione di livello e categoria, non sussiste alcun limite nell’assegnazione di nuove mansioni ad eccezione della non discriminazione. Il sistema di classificazione del personale, indicato nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro assume così un ruolo primario, poiché costituisce l’unico parametro di riferimento per valutare la legittimità del provvedimento di modifica delle mansioni. 

In sostanza, la mobilità orizzontale è legittima nel rispetto di un criterio di equivalenza formale con la conseguenza che il lavoratore potrà essere assegnato a tutti i compiti ricompresi nel livello di inquadramento, per quanto espressione di una professionalità eterogenea. In tal modo, si passa dalla tutela dello specifico bagaglio di conoscenze ed esperienze acquisite ad una tutela della professionalità intesa in senso più generico, tarata sulla posizione formaleoccupata dal lavoratore in azienda, in virtù del sistema di inquadramento. 

Da ciò consegue che il giudice non può più fare alcuna valutazione di equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti, ma deve limitarsi a verificare che il mutamento rimanga all’interno dello stesso livello e categoria.

La scelta normativa sottesa alla nuova formulazione sembra essere, dunque, quella di garantire un maggiore grado di certezza del diritto e di limitare al massimo lo spazio interpretativo lasciato alla giurisprudenza in quanto il livello di inquadramento costituisce un parametro più sicuro rispetto a quello di equivalenza della professionalità. 

Infatti, anche le prime pronunce di merito intervenute dopo la riforma hanno messo in evidenza la notevole differenza tra il “vecchio” e il “nuovo” 2103 c.c.: “prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 81/2015 prevaleva la tutela della professionalità acquista in concreto e la salvaguardia delle competenze maturate nel tempo dal lavoratore, la lesione delle quali era oggetto del sindacato del giudice. Viceversa, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 81/2015, il giudice è semplicemente tenuto alla sussunzione delle nuove mansioni nella declaratoria contrattuale di riferimento” (Tribunale di Milano, sez. Lavoro, Sentenza del 21/07/2017, n. 2137; Tribunale di Roma, sez. Lavoro, Sentenza del 19/01/2017, n. 450).

Il demansionamento

1. Il vecchio 2103 c.c. e le deroghe al divieto di demansionare

La modifica dell’art. 2103 c.c. da parte del Jobs Act ha riguardato anche la disciplina del demansionamento che nel sistema previgente era oggetto di un divieto assoluto. Erano, tuttavia, contemplate alcune eccezioni, limitate a casi di extrema ratio in cui era possibile spostare il lavoratore a mansioni inferiori solo per salvaguardare un bene più prezioso della professionalità, ovvero l’occupazione. 

Tra le deroghe al principio di equivalenza delle mansioni se ne segnalano alcune di fonte legislativa quali: l’art. 7, D.Lgs. 151/2001 che consente l’adibizione a mansioni inferiori (in mancanza di mansioni equivalenti) per il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del bambino delle lavoratrici normalmente assegnate al trasporto e al sollevamento di pesi o a lavori pericolosi, faticosi e insalubri; l’art. 8, D.Lgs. 277/1991 che consente l’adibizione a mansioni inferiori dei lavoratori che per motivi sanitari inerenti la loro persona debbano essere temporaneamente allontanati da un’attività comportante esposizione ad un agente chimico, fisico o biologico; l’art. 4, comma 4, L. 68/1999 che prevede che i lavoratori che hanno subito una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60 % o che sono divenuti inabili a causa dell’inadempimento da parte del datore di lavoro, accertata in sede giurisdizionale, non possono essere licenziati se è possibile adibirli a mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori; l’art. 42 D.Lgs 81/2008 secondo cui il lavoratore ritenuto dal medico competente inidoneo alle mansioni specifiche può essere adibito a mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori; l’art. 4 comma 11 L. 223/1991 che nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo consente di autorizzare con accordo sindacale l’assegnazione dei lavoratori ritenuti eccedenti a mansioni inferiori, al fine di evitare il collocamento in mobilità.

Oltre a queste deroghe legislative, la giurisprudenza (si veda Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza del 06/10/2015, n. 19930) aveva riconosciuto la validità del patto di demansionamento purchè:

  1. sottoscritto da un lavoratore il cui consenso non fosse affetto da vizi della volontà; 
  2. finalizzato a evitare un licenziamento legittimo in mancanza di soluzioni alternative al medesimo.

2. Il nuovo 2103 c.c.: demansionamenti unilaterali e patti di demansionamento

La riforma dell’art. 2103 c.c. ha introdotto espressamente alcune fattispecie giustificatrici del demansionamento, che si sostanziano in una serie di deroghe al divieto di assegnare mansioni non inquadrate nello stesso livello e nella stessa categoria delle precedenti. Le ipotesi previste dal nuovo 2103 c.c. sono tre: le prime due sono qualificabili come casi di demansionamento “unilaterale”, mentre la terza coincide con il cd. demansionamento “consensuale”.

Per quanto riguarda le ipotesi di demansionamento unilaterale, è consentito lo spostamento a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore in caso di modifica degli assetti organizzativi dell’azienda, purché siano rispettati alcuni limiti quali la immodificabilità della categoria legale, l’appartenenza delle nuove mansioni al solo livello di inquadramento contrattuale immediatamente inferiore e la conservazione della retribuzione

Oltre alla suddetta ipotesi di demansionamento unilaterale, il legislatore della riforma prevede, con gli stessi limiti e condizioni sopra evidenziati, che ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni corrispondenti al livello inferiore possano essere previste dai contratti collettivi.

Per quanto riguarda, invece, il demansionamento consensuale, il nuovo art. 2103 c.c. consente al datore di lavoro e al lavoratore di accordarsi per modificare in pejus le mansioni, la categoria, il livello di inquadramento e la relativa retribuzione. Tale ipotesi di demansionamento è, dunque, consentita senza i limiti previsti per quelle unilaterali: il lavoratore può essere adibito a mansioni appartenenti a una categoria legale inferiore e anche a più livelli inferiori di inquadramento e ricevere una retribuzione inferiore. 

Tuttavia, l’accordo è legittimo solo se raggiunto nelle sedi cosiddette protette di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. (DTL, sede sindacale e giudiziaria, commissioni di certificazione) e a condizione che la modifica abbia uno dei seguenti scopi:

  1. salvaguardare il posto di lavoro del dipendente (es. per evitare un licenziamento per motivo oggettivo);
  2. acquisire una diversa professionalità (es. in un determinato reparto si sta sviluppando un prodotto innovativo e si registra un interesse del lavoratore, sulla base del proprio bagaglio formativo e professionale, a sviluppare una certa esperienza cambiando anche categoria di inquadramento); 
  3. migliorare le sue condizioni di vita (es. per ottenere il trasferimento in una unità produttiva più vicina alla propria abitazione, il lavoratore accetta una diversa categoria di inquadramento pur di veder realizzato il proprio obiettivo di una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro). 

In sostanza, con la previsione espressa di un’ipotesi di demansionamento consensuale il legislatore sembra fare proprio l’orientamento della giurisprudenza ante Jobs Act che, in nome del diritto alla conservazione del posto di lavoro, considerato prevalente rispetto a quello della salvaguardia della professionalità, consentiva i patti di demansionamento come extrema ratio per evitare il licenziamento.

La sostanziale differenza tra il patto di demansionamento riconosciuto dalla giurisprudenza e quello disciplinato dal Jobs Act risiede nel fatto che mentre per i giudici l’accordo era legittimo a condizione che fosse finalizzato solo ed esclusivamente alla conservazione del posto di lavoro, il patto previsto dal legislatore della riforma ha un oggetto più ampio: è legittimo non solo se fatto per tutelare il posto di lavoro, ma anche se finalizzato all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. 

3. I demansionamenti iniziati prima della riforma e protrattisi dopo:  il contrasto giurisprudenziale

Fatta una rapida panoramica della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., è opportuno soffermarsi su una problematica che ha dato adito ad un contrasto giurisprudenziale: si tratta della questione dell’applicabilità o meno del nuovo art. 2103 c.c. ai demansionamenti anteriori all’entrata in vigore della riforma e protrattisi dopo. 

Si è registrato un orientamento prevalente che fa leva sull’argomentazione secondo cui la condotta demansionante è un illecito permanente che si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che egli, secondo legge e contratto, avrebbe diritto a svolgere. Da ciò consegue che la valutazione della liceità o meno della condotta posta in essere dal datore va necessariamente compiuta con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno. In sostanza, Il vaglio di legittimità circa l’esercizio dello jus variandi datoriale va effettuato in stretta correlazione con la disciplina, legislativa o contrattuale, vigente; pertanto, l’assegnazione del lavoratore a nuove mansioni può risultare illegittima alla luce di un dato momento storico e, al contempo, legittima per l’avvenire (si vedano in tal senso: Tribunale di Milano, sez. Lavoro, Sentenza del 27/03/2018, n. 328; Tribunale di Roma, sez. Lavoro, Sentenza del 07/11/2017, n. 8982; Tribunale di Milano, sez. Lavoro, Sentenza del 21/07/2017, n. 2137; Tribunale di Roma, sez. Lavoro, Sentenza del 30/09/2015). 

A tale orientamento se ne contrappone un altro che, invece, ritiene che la nuova disciplina dello jus variandi non si applichi alle fattispecie di dequalificazione verificatesi nel vigore della precedente normativa, anche ove il demansionamento contestato dal dipendente sia proseguito per il periodo successivo alla modifica della legge, la quale peraltro non contiene alcuna norma di natura retroattiva e nemmeno di diritto intertemporale (Tribunale di Ravenna, sez. Lavoro, Sentenza del 22/09/2015, n. 174).

Mansioni superiori: maggiore flessibilità nella gestione del rapporto

Anche la nuova formulazione dell’articolo 2103 c.c. prevede il diritto del lavoratore all’assegnazione a mansioni superiori in caso di svolgimento delle medesime protratto nel tempo. Tuttavia, il legislatore del 2015 ha introdotto alcune importanti novità tra le quali rileva in particolare la definitività dell’assegnazione dopo sei mesi continuativi, e non dopo tre come in precedenza, dando così più tempo al datore per valutare l’idoneità del lavoratore al superiore incarico. Non solo. La contrattazione collettiva può prevedere un termine anche più lungo dei sei mesi; il vecchio 2103 c.c., invece, consentiva alla contrattazione collettiva di prevedere un termine diverso, ma non superiore a tre mesi. 

E’ evidente, dunque, che anche in materia di adibizione a mansioni superiori si è verificato un significativo ampliamento dei margini di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro a cui si accompagnano, tuttavia, alcune preclusioni: 

  1. la “diversa volontà del lavoratore” che può, dunque, rinunciare al diritto all’assegnazione definitiva delle mansioni superiori; anche il riconoscimento di un superiore inquadramento, infatti, potrebbe comportare conseguenze non sempre favorevoli quali, ad esempio, la perdita del diritto alle maggiorazioni per lavoro straordinario (che non spettano agli impiegati direttivi, ai quadri e ai dirigenti) o la mancata applicazione della tutela legale contro i licenziamenti illegittimi (non spettante ai dirigenti, che sono licenziabili ad nutum);
  2. la sostituzione di altro lavoratore in servizio: mentre il vecchio 2103 c.c. faceva riferimento alla “sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto”, così includendo i lavoratori in malattia o le lavoratrici in maternità, ma escludendo i lavoratori in ferie, il nuovo 2103 c.c. parla di “ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio”. In tal modo si amplia il ventaglio di casi in cui non è possibile maturare il diritto alla “promozione automatica”.

Conclusioni

A distanza di 4 anni dalla riforma dell’art. 2103 c.c., quindi con maggiore consapevolezza e obiettività, è possibile apprezzarne alcuni aspetti che hanno rivoluzionato il modo di intendere il mutamento di mansioni e in particolare il demansionamento. Sicuramente una delle novità più “rumorose” è la scomparsa dell’equivalenza, criterio che la giurisprudenza non può più adottare per valutare il corretto esercizio dello jus variandi: esiste, tuttavia, il rischio che il criterio di equivalenza possa tornare a trovare applicazione in tutti i casi in cui ci sia l’assegnazione di mansioni non previste nella declaratoria contrattuale: in tali casi il giudice potrebbe nuovamente ricorrere al vecchio criterio per verificare l’equivalenza tra le nuove mansioni e le precedenti.

Altro aspetto che merita attenzione è la circostanza che il legislatore abbia fatto propri gli approdi della giurisprudenza in tema di legittimità del patto di demansionamento e che sia anche andato oltre. Consentire un accordo tra datore e lavoratore garantisce maggiori margini di manovra alle imprese, assolutamente impossibili prima della riforma. Infatti, come commentato dall’avv. Toffoletto, managing partner dello Studio Toffoletto De Luca Tamajo, in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 17/05/2015 “Mansioni modificabili con o senza accordo”, l’art. 2103 c.c., nella sua vecchia formulazione, è stata “una norma sottovalutata che ha, di fatto, ingessato le imprese per 45 anni, non consentendo mutamenti organizzativi e condannando le aziende italiane a una strutturale inefficienza”.

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