I social network sono “piazze virtuali”, luoghi di ritrovo che consentono la condivisione su larga scala e che possono comportare rischi di diversa natura per i soggetti coinvolti.
La loro diffusione impone una riflessione sull’abbattimento della distanza tra “reale” e “virtuale” e su come ogni azione compiuta nel contesto di un social possa incidere sulla vita reale. È indispensabile, pertanto, che gli utenti siano consapevoli del fatto che queste piattaforme non possano essere percepite come una dimensione in cui ciò che accade non abbia impatti sui rapporti giuridici come quelli di lavoro, inevitabilmente condizionati dai comportamenti “virtuali” dei lavoratori.
Infatti, la condivisione sui social da parte dei dipendenti in alcuni casi consente al datore di venire a conoscenza di illeciti idonei a legittimare provvedimenti disciplinari.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui il lavoratore – credendo erroneamente di esercitare il legittimo diritto di critica – insulti il datore di lavoro pubblicando post dal contenuto diffamatorio. Una condotta del genere, anche se tenuta nel mondo virtuale, ha riflessi nella vita reale in quanto lede l’onore e la reputazione dell’impresa nonché il vincolo di fiducia che è alla base del rapporto di lavoro ed è, dunque, idonea a legittimare il licenziamento disciplinare (sul punto si veda il nostro approfondimento “Il diritto di critica del dipendente ai tempi dei social”). Analogamente il dipendente che pubblichi foto dalle quali si evinca – ad esempio – lo svolgimento di attività incompatibili con l’assenza per malattia o l’assistenza del familiare disabile fornisce al datore prove circa la lesione del vincolo fiduciario che legittima il licenziamento. Emblematico è il caso del lavoratore che aveva pubblicato su Facebook le foto di un concerto a cui aveva suonato durante l’assenza per malattia, consentendo all’impresa datrice di lavoro di dimostrarne la fraudolenta simulazione e procedere al licenziamento disciplinare (Cass. 6047/2018).
È, dunque, legittimo l’uso a fini disciplinari delle informazioni pubblicate sui social?
Sulla questione si è pronunciato anche il Garante privacy che, ad esempio, in passato si occupò della segnalazione di un lavoratore licenziato per aver pubblicato su Facebook fotografie scattate sul luogo di lavoro e sul cui sfondo erano visibili disegni coperti da segreto industriale. In particolare, il lavoratore aveva sostenuto l’illiceità del trattamento dei dati sulla base del carattere “chiuso” del suo profilo, riservato a una cerchia ristretta di utenti tra i quali non rientrava il datore di lavoro.
Dall’istruttoria, invece, era emersa la possibilità per il datore di utilizzare lecitamente le foto in questione in quanto la consultazione era consentita non solo ai contatti scelti dal dipendente (i cosiddetti “amici”), ma a una comunità più vasta, gli “amici degli amici”, cioè ai contatti scelti dagli amici dell’interessato, quindi a una cerchia di utenti sostanzialmente indeterminabile.
In altre parole, secondo il Garante il datore di lavoro può legittimamente utilizzare a fini disciplinari le informazioni pubblicate sui social network da parte dei propri dipendenti, a condizione che non siano stati attivati filtri d’accesso.
La giurisprudenza, invece, sembra essere meno rigida ritenendo che ciò che viene pubblicato sulla bacheca social abbia in ogni caso la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone con una potenzialità di diffusione esponenziale (Cass.10280/2018; Cass. 27939/2021).
Una volta immesso sul web, il messaggio trasmesso attraverso un post – anche su un social ad accesso circoscritto – sfugge al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato (Cass. 12142/2024).
Dunque, non rileva assolutamente che la bacheca sia impostata dall’utente come privata e non pubblica, in quanto i social sono da considerarsi luoghi pubblici: non serve privatizzare il profilo e renderlo visibile solo a una cerchia ristretta di utenti per riservarne i contenuti, in quanto ciò che viene inserito in un profilo privato può essere comunque diffuso da ciascuno dei contatti dell’utente, rendendo potenzialmente illimitato il numero dei destinatari del post (Cass. 28878/2018).
Diverso, invece, è il caso dei messaggi inviati nelle chat private o chiuse dei social e, in quanto tali, inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone, ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo. Essi devono essere considerati come corrispondenza privata, chiusa e inviolabile ex art. 15 Cost. (Cass. 21965/2018; Cass. 5334/2025).
Background check e pubblicazioni sui social, un difficile rapporto
Nelle procedure di ricerca e selezione del personale, in genere, viene effettuato il background check per verificare le informazioni contenute nel curriculum di un candidato, come la storia lavorativa e professionale, il percorso formativo, le certificazioni.
Da alcuni studi risulta che prima dell’assunzione il backgroung check sia fatto anche visitando i social media dei candidati e che una notevole percentuale di recruiter (51%) si lasci influenzare negativamente da alcuni tipi di post come, ad esempio, quelli contenenti foto ritenute inappropriate.
Si tratta, tuttavia, di una pratica che rischia di sconfinare nell’indagine sulle opinioni ex art. 8 St. Lav. che vieta «al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore».
La norma, dunque, vieta la verifica di fatti attinenti alla vita privata ed estranei all’attitudine professionale al fine di rendere effettivi – sia in fase di recruiting che di svolgimento del rapporto di lavoro – la libertà di opinione ex art. 1 St. Lav. e il divieto di discriminazione ex art. 15 St. lav.
Sul punto si segnala che il Garante privacy a gennaio 2024 ha approvato il Codice di Condotta per il settore delle Agenzie per il lavoro che si applica alle Agenzie associate ad Assolavoro.
Il Codice all’art. 7 precisa che di regola le informazioni utili per la selezione debbano essere raccolte presso l’interessato. Resta ferma la possibilità per le Agenzie di avvalersi di informazioni pubbliche disponibili sui social network di natura professionale, intesi come piattaforme attraverso cui gli utenti condividono e scambiano informazioni relative alle attitudini professionali, ai percorsi di studio e di formazione, all’attività lavorativa svolta, alle esperienze professionali e alla carriera.
In tali casi le Agenzie possono raccogliere e trattare i dati personali inerenti al profilo professionale e presenti sui social sopra indicati nel rispetto del principio di minimizzazione e solo nella misura in cui la raccolta di tali dati sia necessaria e pertinente allo svolgimento del lavoro per il quale si effettua la ricerca.
Conclusioni
I social network rappresentano uno spazio pubblico e le attività dei dipendenti su queste piattaforme possono avere conseguenze sui rapporti di lavoro fino a legittimare provvedimenti disciplinari incluso il licenziamento.
Oltre ad essere strumento per conoscere illeciti extra-lavorativi tali da ledere la fiducia dell’impresa, i social sono spesso adottati in sede di recruiting come canale per reperire informazioni sui possibili candidati, attività che invece va compiuta nel rispetto della normativa in materia di privacy e di divieto di indagini sulle opinioni.
Toffoletto De Luca Tamajo è a disposizione per qualsiasi chiarimento e per supportarvi nello svolgimento delle attività necessarie affinché il controllo dei social avvenga in maniera legittima.
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