Last Updated on Novembre 21, 2019
Di: Avv. Wanda Falco
Il trasferimento del lavoratore consiste in uno spostamento definitivo del dipendente senza limiti di durata da una sede di lavoro ad un’altra. Esso è disciplinato dall’art. 2103 c.c. secondo cui il trasferimento può essere attuato solo in presenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive”.
Ciò significa che un lavoratore può essere trasferito solo a condizione che l’azienda possa dimostrare, ad esempio, che la presenza del dipendente nella sede di provenienza non è più utile o che è necessaria la sua particolare professionalità nella sede di destinazione e che, dunque, sono effettive le ragioni poste alla base della decisione aziendale (Cass. 1383/2019). Chiaramente resta ferma l’insindacabilità della scelta del datore di lavoro tra diverse soluzioni organizzative adottabili.
Dunque, come più volte ribadito dalla giurisprudenza, sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l’indicazione dei motivi né il datore di lavoro abbia l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, l’azienda ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato (Cass. 614/2019).
Fatta questa necessaria premessa, vediamo ora nel dettaglio alcune problematiche tipiche del trasferimento di un dipendente.
Il dipendente può rifiutarsi di adempiere se ritiene il trasferimento illegittimo?
Non di rado accade che il datore di lavoro disponga un trasferimento che il dipendente reputa illegittimo e al quale sceglie di non adempiere rifiutandosi di eseguire la prestazione nella nuova sede di lavoro.
In tali casi è legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente?
È chiaro che se il trasferimento del dipendente è legittimo, sarà legittimo anche il licenziamento. Se, invece, effettivamente il trasferimento risulta illegittimo lo scenario cambia.
Come spiega la giurisprudenza, il giudice, ove venga proposta dal dipendente l’eccezione di inadempimento – che consiste nel rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondato sulla allegazione dell’inadempimento, anche parziale, del datore – deve procedere ad “una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, al fine di stabilire quale sia più grave” (Cass. 21391/2019).
In altre parole, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in quanto ai contratti a prestazioni corrispettive si applica l’art. 1460, comma 2, c.c. secondo cui la parte può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede (Cass. 11408/2018).
Dunque, tutto dipende dall’esito del confronto tra i due inadempimenti: se emerge una sproporzione dell’inadempimento del dipendente rispetto a quello del datore (nel senso che, ad esempio, il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione incide eccessivamente sulla organizzazione datoriale e sulla realizzazione degli interessi aziendali), il rifiuto del dipendente di eseguire il trasferimento sarà illegittimo. Se, viceversa, l’inadempimento datoriale va ad incidere significativamente su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, sarà allora legittimo l’inadempimento del dipendente.
Alla luce di tali principi è stato, pertanto, ritenuto illegittimo il licenziamento intimato per assenza ingiustificata presso la nuova sede in considerazione del fatto che il dipendente aveva comunque offerto la propria prestazione presso l’ufficio originario e aveva addotto esigenze familiari di assistenza dei genitori inabili conviventi, assistenza che non avrebbe potuto prestare a causa della distanza del luogo di nuova destinazione (Cass. 14138/2018).
Analogamente è stato ritenuto giustificato e proporzionato il comportamento del dipendente che si era rifiutato di prendere servizio presso la nuova sede avuto riguardo alle concrete circostanze del caso: la destinazione ad una sede lavorativa particolarmente distante (circa 600 km) dal luogo di residenza; la ristrettezza del termine concesso per prendere servizio, anche in ragione delle specifiche esigenze organizzative e familiari; l’assenza di mezzi economici adeguati a sopportare il trasferimento (Cass. 21391/2019).
Diversamente si segnala il caso del dipendente illegittimamente trasferito che si era rifiutato di eseguire la prestazione sia presso la nuova sede di destinazione che presso quella di provenienza: in tale caso non c’è alcuna proporzione tra l’inadempimento datoriale, attinente solo al luogo della prestazione, ed il rifiuto del lavoratore (Cass. 3959/2016).
Il lavoratore che usufruisce dei permessi ex L. 104/92 può rifiutarsi di prestare servizio se trasferito?
Un’altra questione interessante è quella relativa alla possibilità di trasferire il dipendente che assiste un familiare disabile.
Esiste un limite legislativo a questo tipo di trasferimento in quanto l’art. 33 comma 6 della L. 104/92 prevede che il lavoratore che assiste il familiare disabile ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito in altra sede senza il suo consenso.
La giurisprudenza ha elaborato una lettura costituzionalmente orientata della norma affermando che, stante la centralità del ruolo della famiglia nell’assistenza al disabile e nel soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione di quest’ultimo quale strumento di sviluppo della personalità, la tutela della persona con disabilità si realizza anche attraverso la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare del soggetto tutelato (Cass. 24015/2017).
Tale interesse esige, però, un bilanciamento necessario con quello del datore di lavoro che può legittimamente trasferire il dipendente ove ciò sia richiesto da ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Pertanto, il giudizio sulla legittimità del trasferimento deve essere condotto considerando, da un lato, quanto il mutamento di sede alteri le condizioni di vita del contesto familiare in cui è inserito il portatore di handicap, dall’altro, se vi siano e quale rilevanza abbiano le esigenze produttive sottese al trasferimento.
Si precisa che tale bilanciamento tra diritti e interessi del lavoratore e del datore, aventi entrambi copertura costituzionale, deve essere fatto valorizzando le esigenze di cura e assistenza del disabile ed evitando riflessi pregiudizievoli ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque suscettibili di essere diversamente soddisfatte (Cass. 25379/2016).
Alla luce di tali principi la Suprema Corte ha, ad esempio, cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimo il rifiuto del lavoratore al trasferimento in quanto la nuova sede di lavoro si trovava a pochissimi chilometri di distanza da quella originaria e dall’abitazione del dipendente. In tal modo i giudici di merito avevano omesso qualsiasi accertamento sulla compatibilità della nuova sede con gli obblighi di assistenza del familiare e la verifica dell’esistenza di ragioni organizzative e produttive tali da non poter essere soddisfatte in altro modo (Cass. 24015/2017).
Trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale
Un caso particolare è costituito dall’ipotesi di trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale.
Si tratta di un provvedimento che deve essere ricondotto a esigenze tecniche, organizzative e produttive (ex art. 2103 c.c.) o a ragioni punitive e disciplinari?
La giurisprudenza esclude la legittimità del trasferimento motivato da ragioni punitive e disciplinari in quanto l’art. 7, comma 4 della L. 300/70 limita la gamma delle sanzioni disciplinari, vietando quelle che comportino “mutamenti definitivi del rapporto di lavoro” tra le quali rientrerebbe senz’altro il trasferimento che, infatti, incide definitivamente sul luogo della prestazione.
È riconosciuta, invece, la possibilità di procedere allo spostamento del dipendente motivato dalla necessità di porre rimedio ad uno stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva cui il lavoratore è addetto (Cass. 27345/2019; Cass. 11568/2017).
Ciò che il datore deve dimostrare, in caso di impugnazione del trasferimento, è la corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa: la ragione che giustifica la modifica del luogo di lavoro deve essere l’incompatibilità ambientale che ricorre in presenza di tensione nei rapporti personali o di contrasti nell’ambiente di lavoro che causano disorganizzazione e disfunzione nell’unità produttiva.
Come già anticipato, anche per questo tipo di trasferimento vale il principio dell’insindacabilità della scelta datoriale (ex art. 41 Cost. che sancisce la libertà dell’iniziativa economica privata), potendo il giudice solo verificare l’effettività delle ragioni poste alla base del provvedimento senza scendere nel merito della scelta imprenditoriale; in altre parole, la decisione del datore non deve “presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo” (Cass. 2143/2017).
Si pensi al caso del dipendente trasferito a seguito di un diverbio con un collega sfociato nelle vie di fatto e seguito da denunce penali reciproche. Tale episodio increscioso aveva sollevato grande clamore all’interno dell’azienda, peraltro di piccole dimensioni, e generato tensione tra i due dipendenti che rischiavano di incontrarsi spesso, considerato che l’accesso ai rispettivi uffici era unico e le stanze si trovavano nello stesso corridoio. Tutti questi elementi rendevano altamente probabile un peggioramento della situazione con disservizi e inevitabili conseguenze sulla funzionalità dell’unità produttiva (Cass. 27226/2018).
Conclusioni
Il trasferimento del dipendente è un potere datoriale che consente all’azienda di efficientare le proprie risorse e di potenziare l’organizzazione. Il suo esercizio è assistito dal baluardo dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali che, se pone il datore al riparo da giudizi di merito, non lo esime da utilizzare tale potere con cautela al fine di evitare abusi quali i provvedimenti aventi il solo scopo di sanzionare un dipendente sgradito.
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