Tempo tuta: quando rientra nell’orario di lavoro?

Last Updated on Dicembre 19, 2019

Di: Avv. Wanda Falco

Secondo la definizione data dal D.lgs. 66/2003 all’art. 1, comma 2, lett. a, per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore di lavoro, nell’esercizio delle sue attività lavorative o delle sue funzioni”.

La nozione di orario di lavoro effettivo e da retribuire, dunque, non comprende solo la prestazione del dipendente intesa in senso stretto, bensì anche tutte quelle operazioni che risultano strettamente funzionali alla prestazione e che il lavoratore deve necessariamente compiere secondo le modalità stabilite dal datore. Dunque, il criterio per distinguere ciò che è orario di lavoro e ciò che non lo è consiste proprio nell’eterodirezione ovvero nell’assoggettamento del lavoratore all’esercizio del potere organizzativo, direttivo e di controllo del datore di lavoro.

È stata a lungo dibattuta la questione relativa alla possibilità di considerare come orario di lavoro da retribuire il tempo che il dipendente impiega per indossare e dismettere gli abiti da lavoro (definito in gergo “tempo tuta”). Infatti, se è pacifico che per qualificare il tempo tuta come orario di lavoro è indispensabile la soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore, meno scontata è l’individuazione dell’esistenza dell’eterodirezione caso per caso.

Vediamo nel dettaglio, quindi, quali sono gli indici, individuati dalla giurisprudenza, dai quali si può desumere l’esistenza dell’eterodirezione nella fase della vestizione/dismissione degli abiti da lavoro.

Gli indici rivelatori dell’eterodirezione secondo la giurisprudenza

Come anticipato, la giurisprudenza, nel valutare la retribuibilità del “tempo tuta”, distingue il caso in cui il lavoratore abbia la possibilità di scegliere il tempo e il luogo in cui indossare la divisa (ad esempio, presso la propria abitazione prima di raggiungere la sede di lavoro) dal caso in cui non abbia tale facoltà. Infatti, se il dipendente è libero di scegliere se indossare gli indumenti di lavoro a casa o presso la sede di lavoro, la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa e come tale non deve essere retribuita; se, invece, tale operazione è vincolata nel senso che il lavoratore deve necessariamente eseguirla presso la sede aziendale, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo necessario a svolgerla deve essere retribuito. 

Ma da cosa si desume l’eterodirezione? Ormai è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’eterodirezione può desumersi da indici diversi quali l’esplicita disciplina d’impresa o la natura degli indumenti e la specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nella quotidianità (Cass. 16604/2019; Cass. 1352/2016). 

Vediamo alcuni casi pratici per comprendere meglio la portata dei due diversi indici.

1. L’esplicita disciplina d’impresa

Per quanto riguarda l’esplicita disciplina d’impresa, l’eterodirezione può emergere dall’obbligo aziendale di indossare la divisa nel luogo di lavoro e di lasciare la medesima nei locali aziendali.

Si pensi al caso dei dipendenti del supermercato che avevano l’obbligo di conservare gli indumenti da lavoro presso la sede aziendale, all’interno dell’armadietto personale assegnato a ciascuno nello spogliatoio essendo pacifico il divieto di fare uso di tali indumenti al di fuori del luogo di lavoro; dal regolamento relativo all’utilizzo dell’orologio marcatempo si desumeva, inoltre, che tali operazioni dovevano avvenire prima della timbratura in entrata e dopo la timbratura in uscita, circostanze queste che denotavano la regolamentazione da parte del datore di lavoro delle operazioni di vestizione e svestizione in relazione al luogo e al tempo (Cass. 5437/2019).

Diversamente, non è stato riconosciuto il diritto al compenso per lavoro straordinario ai carpentieri che non avevano provato la circostanza di essere tenuti ad anticipare l’ingresso nello stabilimento per svolgere l’attività di vestizione e che il datore di lavoro esercitasse controlli disciplinari al riguardo, anzi risultando che, nel periodo estivo, alcuni lavoratori non indossavano la parte superiore della tuta (Cass. 9215/2012).

2. La natura degli indumenti

Come anticipato, in alcuni casi l’eterodirezione può desumersi anche dalla natura degli indumenti da indossare e dalla funzione che essi devono assolvere.

Si pensi, ad esempio, al caso delle divise degli infermieri operanti all’interno delle strutture sanitarie: per esigenze di igiene e sicurezza sia dei dipendenti che del pubblico è necessario che le divise siano indossate e dismesse sul luogo di lavoro prima dell’inizio del turno e alla fine senza mai essere portate all’esterno. Si tratta, infatti, di modalità comportamentali imposte da imprescindibili esigenze datoriali e che, come tali, sono da considerarsi tempo di lavoro da retribuire, non avendo il lavoratore la possibilità di scegliere di agire diversamente e indossare la divisa a casa (Cass. 16180/2019).

Analogamente, anche l’inserviente della mensa per ragioni sanitarie deve indossare la divisa in spogliatoi aziendali che siano in contiguità spaziale rispetto alla sede della mensa, a nulla rilevando che la normativa contrattuale non contempli la computabilità dei tempi di vestizione nell’orario di lavoro (Cass. 9417/2018).

Diverso, invece, è il caso dei DPI (dispositivi di protezione individuale) che il lavoratore è obbligato a indossare per ragioni di sicurezza. 

Il fatto che l’uso dei dispositivi di protezione individuale sia obbligatorio per lo svolgimento della prestazione non è una circostanza decisiva al fine della retribuibilità del tempo impiegato per le operazioni di vestizione e svestizione qualora emerga che i suddetti indumenti possano essere indossati e dismessi anche fuori dal luogo di lavoro e, quindi, in ambito sottratto all’eterodirezione (Cass. 9871/2019).

Dunque, è evidente che la particolare natura dell’indumento può costituire un indice sussidiario per l’accertamento dell’eterodirezione, fermo restando che il criterio determinante rimane quello della sottoposizione del dipendente a un regolamento aziendale che stabilisca il tempo e il luogo dell’attività di vestizione e dismissione degli abiti.

Un caso particolare: il dipendente che si attribuisce arbitrariamente il tempo tuta

A conferma dei principi sopra esposti e, dunque, della necessità che il tempo tuta sia eterodiretto affinché possa essere incluso nell’orario di lavoro (e dunque retribuito), si segnala il caso di un dipendente destinatario di ben 8 contestazioni disciplinari tutte relative all’abbandono del posto di lavoro dieci minuti prima della fine del turno per la dismissione degli indumenti di lavoro.

In tal caso la condotta del dipendente era stata qualificata come grave e reiterata insubordinazione che aveva portato al licenziamento disciplinare considerato legittimo dai giudici. Infatti, se anche l’azienda avesse perpetrato un abuso nel pretendere che il lavoratore si vestisse al di fuori dell’orario di lavoro nonostante l’attività di vestizione fosse eterodiretta, il dipendente non poteva a sua volta ignorare le richieste aziendali di indossare e togliere la divisa al di fuori dell’orario di lavoro. 

Infatti, il lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento dell’illegittimità del comportamento datoriale, ma non è autorizzato a rifiutare aprioristicamente di eseguire la prestazione secondo le modalità indicate dall’azienda. Dunque, nel caso in esame il lavoratore avrebbe dovuto agire in giudizio per chiedere il riconoscimento del diritto al pagamento dello straordinario per il tempo impiegato a indossare gli abiti da lavoro, dimostrando, chiaramente, l’eterodirezione di tale attività e la totale assenza di libertà di scelta del dove e quando indossare e dismettere la divisa (Cass. 22382/2018). 

Conclusioni

L’orientamento prevalente della giurisprudenza ormai consolidatosi è univoco nel valorizzare l’aspetto della messa a disposizione del datore di lavoro delle energie lavorative da parte del dipendente. Occorrerà, dunque, verificare caso per caso se il tempo impiegato dal lavoratore per l’espletamento delle operazioni propedeutiche allo svolgimento dell’attività lavorativa sia oggetto di controllo e regolamentazione datoriale ovvero sia condizionato dalla particolare natura degli indumenti, casi in cui tale tempo potrà essere considerato parte integrante dell’orario di lavoro e di conseguenza computato a fini retributivi. Qualora, invece, il lavoratore sia libero di scegliere il tempo e il luogo dell’operazione di vestizione, senza alcuna imposizione del datore di lavoro, tale tempo farà parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa e non potrà essere ricondotto al tempo di lavoro effettivo né, pertanto, retribuito.

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