Last Updated on Ottobre 8, 2019
Di: Avv. Wanda Falco
Secondo l’art. 3 della L. 604/1966 il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quel tipo di licenziamento motivato da ragioni inerenti “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Si tratta del licenziamento per “motivi economici” che per molto tempo la giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto legittimo solo nel caso in cui l’azienda dimostrasse la necessità di procedere alla riorganizzazione e alla conseguente soppressione della posizione lavorativa al fine di far fronte a situazioni sfavorevoli, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva e non altrimenti risolvibili dall’imprenditore.
Tale orientamento è stato sovvertito da una storica sentenza della Cassazione del 2016 la quale, recuperando un orientamento minoritario, ha detto a chiare lettere che ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non è necessaria la crisi aziendale ovvero l’andamento economico negativo dell’azienda.
Vediamo, pertanto, nel dettaglio come è cambiato nel tempo l’approccio dei giudici alla nozione di licenziamento per GMO.
L’orientamento prevalente ante 2016: è necessaria la crisi aziendale
Come anticipato, prima del 2016 l’orientamento giurisprudenziale prevalente fondava il giustificato motivo oggettivo di licenziamento sull’esigenza sopravvenuta di una riorganizzazione del lavoro finalizzata alla riduzione dei costi d’impresa e imposta “da una seria ragione di utile gestione dell’azienda e non dall’incremento del profitto, che da solo sarebbe un motivo personale del datore” (Cass. 4146/1991). In sostanza non bastava un generico programma di riduzione dei costi, ma era necessaria una effettiva situazione economica sfavorevole e non meramente contingente che influisse in modo decisivo sulla normale attività produttiva.
Il licenziamento per motivo oggettivo, dunque, doveva essere determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui era addetto il singolo lavoratore, soppressione che non poteva essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma doveva essere diretta a fronteggiare effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo connesse a una situazione di crisi non transeunte e non altrimenti rimediabile (si vedano in tale senso: Cass. 13116/2015; Cass. 5173/2015).
La svolta con la sentenza della Cassazione n. 25201/2016
L’orientamento appena esposto è stato travolto dalla storica sentenza del 2016 con cui la Cassazione ha definitivamente dato voce all’orientamento fino a quel momento minoritario secondo cui le ragioni inerenti all’attività produttiva possono derivare da riorganizzazioni e ristrutturazioni anche dirette al mero risparmio dei costi e all’incremento dei profitti.
Qual è il fondamento giuridico di tale nuovo orientamento?
La Cassazione spiega che ai sensi dell’art. 3 della L. 604/1966 il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. L’interpretazione letterale della norma evidentemente esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debbano ricorrere situazioni sfavorevoli ovvero spese notevoli di carattere straordinario cui sia necessario fare fronte.
Infatti, stando a un’interpretazione letterale della norma, è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, dalle quali non possono essere aprioristicamente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa.
Non è, quindi, necessario che si debba fronteggiare un andamento economico negativo o spese straordinarie: è meritevole di considerazione l’obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l’attività dell’impresa attraverso le modalità ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli.
Una diversa interpretazione non trova alcun riscontro nel dettato normativo, ma trae origine dalla tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere socialmente opportuna e adottata solo nel caso in cui l’azienda non possa fare diversamente per sopravvivere. Tuttavia, se è vero che la Costituzione sancisce la tutela del lavoro come principio fondamentale del nostro ordinamento, non esiste un diritto al mantenimento del posto di lavoro senza limiti; come evidenziato dalla Corte, in assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro non consente di riempire l’art. 3 della L. 604/66 di contenuto fino al punto da ritenere “precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba fare fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi”.
A ciò si aggiunga che l’art. 41 comma 3 Cost. prevede che l’iniziativa economica privata, che non deve svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità della persona umana, deve essere libera: tale libertà va esercitata nei limiti stabiliti dal legislatore al quale non può sostituirsi il giudice, che non ha il potere di sindacare le scelte imprenditoriali nei profili di congruità e opportunità. Diversamente, esigere la sussistenza di una situazione economica sfavorevole per rendere legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo significa – come spiega la Cassazione – “inserire nella fattispecie legale astratta disegnata dall’art. 3 della L. 604/1966 un elemento fattuale non previsto dal legislatore dando luogo a una interpretazione che sfocia inevitabilmente nel sindacato sulla congruità e sulla opportunità della scelta imprenditoriale”.
Dunque, alla luce dell’art. 41 Cost. e dell’interpretazione letterale dell’art. 3 L. 604/66 è possibile affermare che la ristrutturazione organizzativa può essere determinata dall’obiettivo di una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero di un incremento della redditività d’impresa e non solo dalla necessità di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure a spese straordinarie. Tuttavia, ciò non significa affatto che la decisione imprenditoriale sia sottratta ad ogni controllo e sfugga a ben precisi limiti.
Non è, infatti, possibile perseguire l’incremento del profitto con il mero abbattimento del costo del lavoro licenziando un dipendente e sostituendolo con un altro assunto a minor costo e in assenza di un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva. È inoltre, necessaria la verifica dell’effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a sostegno del recesso nonché della sussistenza del nesso causale tra l’accertata ragione inerente all’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, così come dichiarata dall’imprenditore, e l’intimato licenziamento.
La giurisprudenza post Cassazione 2016: ancora qualche resistenza dei giudici di merito
In seguito alla pronuncia appena esaminata la Cassazione ha continuato a confermare il predetto orientamento, ma si segnalano alcune resistenze da parte dei giudici di merito.
Una recentissima pronuncia di legittimità (Cass. 19302/2019) ha, infatti, cassato una sentenza della Corte d’appello di Palermo che, ignorando il nuovo e consolidato orientamento della Cassazione, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per assenza di prova di una congiuntura sfavorevole non meramente contingente e influente in modo decisivo sull’andamento della attività, tanto da imporre la risoluzione del rapporto. In particolare, il caso di specie riguardava una piccola impresa che aveva subito un costante, anche se contenuto, calo dei profitti a fronte del quale aveva deciso di modificare i contratti di alcuni dipendenti, trasformandoli da full-time in part-time e di licenziare quello che non aveva accettato il passaggio al part-time.
La Cassazione ha ribadito il principio secondo cui anche le ragioni dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, che determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un posto di lavoro, possono legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il GMO, dunque, “si sostanzia in ogni modifica della struttura organizzativa dell’impresa che abbia quale suo effetto la soppressione di una determinata posizione lavorativa, indipendentemente dall’obiettivo perseguito dall’imprenditore, sia esso, cioè, una migliore efficienza, un incremento della produttività – e quindi del profitto – ovvero la necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese straordinarie”.
Analogamente, in precedenza la Cassazione con sentenza 9127/2018 ha cassato con rinvio la pronuncia della Corte d’Appello di L’Aquila che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per GMO non avendo l’azienda fornito “adeguata prova che la ristrutturazione organizzativa attuata fosse diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti che influissero decisamente sulla normale attività produttiva imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi”.
Si segnala che anche il Tribunale di Milano ha manifestato qualche resistenza nei confronti del nuovo orientamento della Cassazione (si vedano in tal senso Tribunale di Milano, sentenza del 13/06/2017 n. 1785 e Tribunale di Milano, ordinanza del 28/02/2018). In particolare, il giudice di merito continua a sostenere che il quadro normativo di riferimento impone di considerare il licenziamento economico l’extrema ratio cui il datore di lavoro deve ricorrere per far fronte a sfavorevoli e non meramente contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per ridurre costi al fine di mantenere competitività sul mercato, per rimediare a soluzioni organizzative disfunzionali e produttive di maggiori costi/danni, e ciò anche in una visione prospettica, purché fondata su una seria analisi della situazione economica di partenza, che non deve essere necessariamente di crisi, ma quanto meno di difficoltà. A detta del giudice milanese solo aderendo a tale soluzione interpretativa le scelte imprenditoriali rendono socialmente accettabile il sacrificio dell’interesse del lavoratore alla stabilità lavorativa. Al contrario, ammettere la sufficienza di una qualsiasi scelta organizzativa causalmente connessa con la soppressione per giustificare il recesso economico equivarrebbe a lasciare il lavoratore in balia del datore di lavoro. A ciò i giudici di merito aggiungono che l’art. 3 della L. 604/1966 è evidentemente “una norma scarna, ma al tempo stesso ampia e generica, che deve essere riempita di significato, potendo diversamente giustificare qualsivoglia ragione organizzativa”.
Conclusioni
Con la sentenza del 2016 la Cassazione ha fatto luce su una questione da tempo dibattuta in giurisprudenza e sulla quale ancora oggi continuano a registrarsi divergenze interpretative.
Se è vero che la norma cardine in materia di licenziamento per motivo oggettivo non contiene alcun riferimento alle condizioni economiche dell’azienda né fonda espressamente la legittimità del licenziamento sull’effettività di una crisi aziendale, alcuni giudici di merito continuano a fare resistenza. Eppure è innegabile che tra le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa debbano includersi le esigenze di efficientamento dell’attività produttiva che ricorrono anche in assenza di crisi aziendale o di gravi difficoltà economiche. Continuare a sostenere che il licenziamento per GMO debba essere l’ultima spiaggia cui approdare solo quando l’azienda sia in difficoltà tali da non poter fare diversamente, da un lato paralizza lo sviluppo economico delle imprese e dall’altro viola un principio fondamentale del nostro ordinamento: l’iniziativa economica privata è libera e tale libertà va interpretata nel senso che l’azienda deve poter perseguire l’incremento di profitto attraverso innovazioni tecnologiche e riorganizzazioni che rendano l’attività produttiva il più efficiente possibile.
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