Abuso del whistleblowing? Legittimo il licenziamento

Il whistleblowing è un istituto volto a promuovere la cultura della legalità nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione e delle imprese; tale obiettivo è perseguito mediante il coinvolgimento dei dipendenti nella segnalazione delle condotte illecite di cui siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro, circostanza che consente l’emersione anche di illeciti difficilmente riscontrabili dall’esterno. 

Il corretto funzionamento dei sistemi di whistleblowing, dunque, incide sulla sostenibilità delle imprese e consente alle società di essere in linea con i parametri ESG.

Il conseguimento di tale risultato implica anche la garanzia di una particolare tutela nei confronti del whistleblower che non può subire alcuna ripercussione negativa determinata dalla segnalazione effettuata; accanto a tale esigenza è altrettanto rilevante la necessità di evitare la strumentalizzazione della segnalazione e che, dunque, la protezione del segnalante diventi strumento di pressione indebita sulle imprese.

Il tema è stato affrontato di recente anche dalla Corte di Cassazione che ha dichiarato legittimo il licenziamento del dipendente per abuso del whistleblowing mediante utilizzo della segnalazione per scopi di carattere personale.

Nel presente approfondimento, pertanto, esamineremo i principali aspetti della disciplina della tutela del segnalante e la recente giurisprudenza sul tema. Per maggiori dettagli sugli obblighi delle imprese si veda il nostro approfondimento “Whistleblowing: recepita la direttiva. Prossimi passi per le imprese”.

La protezione del segnalante. Contenuto e limiti

La protezione delle persone che segnalano illeciti di cui siano venute a conoscenza nel proprio contesto lavorativo costituisce uno dei principali aspetti della disciplina del whistleblowing, integrata dal D.lgs. 24/2023 attuativo della Direttiva UE 2019/1937.

All’art. 2 il decreto definisce “ritorsione” qualsiasi comportamento, atto o omissione, anche solo tentato o minacciato, posto in essere in ragione della segnalazione e che provoca o può provocare alla persona segnalante, in via diretta o indiretta, un danno ingiusto.

Pertanto, costituiscono ritorsioni – ad esempio – il licenziamento, la sospensione, il demansionamento e qualsiasi discriminazione, anche solo tentati o minacciati, posti in essere ai danni del lavoratore in ragione della segnalazione. 

Insomma, il dipendente virtuoso che si adoperi nel segnalare una condotta illecita, di cui venga a conoscenza in occasione del proprio lavoro, non deve correre il rischio di venire sanzionato, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie, dirette o indirette, per motivi legati alla segnalazione.

Il divieto di ritorsione è accompagnato dalla presunzione – nell’ambito di procedimenti giudiziali e stragiudiziali aventi ad oggetto l’accertamento dei comportamenti vietati – che gli stessi siano stati posti in essere a causa della segnalazione. Ciò comporta che è a carico del datore di lavoro l’onere di provare che tali condotte o atti siano motivati da ragioni estranee alla segnalazione. 

Discorso analogo in caso di domande risarcitorie del dipendente: se il lavoratore dimostra di aver effettuato una segnalazione e di aver subito un danno, si presume, salvo prova contraria, che il danno sia conseguenza di tale segnalazione.

È stata integrata anche la previsione ex art. 4 L. 604/1966 che attualmente prevede che siano nulli anche i licenziamenti conseguenti alla segnalazione effettuata ai sensi del D.lgs. 24/2023.

Come anticipato, le tutele riconosciute al segnalante devono essere chiaramente subordinate alla sussistenza di condizioni espressamente previste dalla legge che mirano proprio a scongiurare un uso distorto dell’istituto. Il whistleblower tutelato dalla normativa, infatti, è colui che segnala illeciti in nome della tutela dell’interesse pubblico, dell’integrità della P.A. o delle imprese e non del proprio interesse personale, legato al rapporto di lavoro. Sul punto si evidenzia, infatti, che l’art. 1 del decreto citato prevede che le disposizioni in esso contenute non si applichino «alle contestazioni, rivendicazioni o richieste legate ad un interesse di carattere personale del segnalante …. e che attengono esclusivamente al suo rapporto di lavoro». 

A completamento di questa premessa il legislatore fissa, poi, alcuni paletti alla protezione del segnalante. In particolare, stabilisce che:

1. le misure di protezione si applicano solo se:

  • al momento della segnalazione, la persona segnalante aveva fondato motivo di ritenere che le informazioni sulle violazioni segnalate fossero vere; 
  • la segnalazione sia stata effettuata nel rispetto della procedura predisposta. 

2. le tutele non sono garantite e alla persona segnalante è irrogata una sanzione disciplinare in caso di accertamento, anche con sentenza di primo grado, della sua responsabilità penale per i reati di diffamazione o di calunnia ovvero della responsabilità civile per dolo o colpa grave. 

Alcune pronunce recenti sui limiti alla protezione del segnalante

Non abbiamo ancora evidenza del contenzioso relativo a fattispecie sottoposte alla nuova disciplina del whistleblowing, ma sono state di recente pubblicate alcune pronunce della Cassazione relative a casi di dipendenti pubblici destinatari – prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 24/2023 – della tutela ex art. 54-bis D.lgs. 165/2001, ora abrogato.

Sebbene si tratti di fattispecie relative al pubblico impiego e soggette alla normativa previgente, i principî espressi dalle pronunce sono assolutamente in linea con le previsioni attualmente vigenti e meritano approfondimento. 

Con sentenza 17715/2024 – ad esempio – la Cassazione si è pronunciata sul caso della dirigente di una P.A. che aveva inviato a vari destinatari, senza seguire la prescritta procedura, una segnalazione recante la denuncia di sottrazione di fondi pubblici da parte di un superiore. 

Nella vicenda sono essenzialmente due i profili sui quali la Suprema Corte si è soffermata per confermare la legittimità del licenziamento per giusta causa della lavoratrice. 

In primis la segnalazione era stata trasmessa con modalità diverse da quelle prescritte dal piano triennale di prevenzione della corruzione allora vigente, in quanto l’invio della segnalazione era stato fatto senza garantire la segretezza della stessa e del nominativo della segnalante.

Inoltre, dalla relazione del responsabile anticorruzione non era emersa alcuna anomalia nella gestione delle vicende segnalate per cui la segnalazione era risultata non veritiera, avendo come unico intento quello di portare nei luoghi di lavoro discredito al collega e violando il clima di pieno e sostanziale rispetto reciproco richiesto dal codice di comportamento. 

In altre parole, la dipendente aveva utilizzato impropriamente l’istituto del whistleblowing riportando circostanze risultate non vere che avevano diffamato e leso l’onore e la reputazione del superiore gerarchico, comportamento che ha portato al licenziamento per giusta causa ritenuto legittimo dalla Suprema Corte.

Anche in un’altra pronuncia recente la Cassazione ha affrontato il tema della tutela del segnalante evidenziandone i limiti nell’ottica di evitare di trasformare la protezione in uno “scudo generalizzato” rispetto agli illeciti del dipendente (Cass. 9148/2023).

Si tratta del caso di un’infermiera professionale, dipendente di un’azienda ospedaliera, sospesa per aver effettuato per circa 8 anni prestazioni lavorative presso un ente privato senza la preventiva autorizzazione e percependo guadagni significativi. La lavoratrice precedentemente aveva denunciato il medesimo comportamento tenuto dai colleghi sperando che tale segnalazione potesse fungere da esimente e alleggerire le conseguenze a proprio carico. 

La Suprema Corte, chiarendo i confini della disciplina di tutela del whistleblower, ha precisato che l’applicazione al dipendente di una sanzione per comportamenti illeciti tenuti resta al di fuori della copertura fornita dalla norma che non esime da responsabilità chi commetta un illecito disciplinare per il solo fatto di aver denunciato la commissione dello stesso o di fatti analoghi ad opera di altri dipendenti. 

La normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti altrui «salvaguarda il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell’apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogare» (Cass. 9148/2023).

Applicando tale principio al caso di specie, la Cassazione afferma che la sanzione disciplinare comminata non era collegata alla segnalazione della denunziante, ma alla condotta contestata che restava al di fuori della copertura fornita dalla normativa sul whistleblowing.

Conclusioni

Il whistleblowing è uno strumento fondamentale per tutelare l’integrità delle imprese e della pubblica amministrazione, ma è essenziale che non venga strumentalizzato a fini personali. 

Recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno, infatti, confermato che l’abuso di questo istituto, per scopi personali o con modalità scorrette, può giustificare il licenziamento in quanto la protezione accordata al segnalante non deve diventare uno “scudo” per comportamenti illeciti.

Lo Studio Toffoletto De Luca Tamajo è a Vostra disposizione per qualsiasi chiarimento e per supportarvi nella corretta implementazione di un sistema di whistleblowing.

Per maggiori informazioni: comunicazione@toffolettodeluca.it
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