Dimissioni: quando è esclusa la giusta causa?

Last Updated on Settembre 2, 2022

Le dimissioni per giusta causa configurano un’ipotesi particolare di dimissione del lavoratore subordinato. Si tratta di un caso in cui il dipendente può recedere dal rapporto in tronco e, dunque, senza obbligo di dare un preavviso al datore di lavoro e con diritto al pagamento da parte di quest’ultimo dell’indennità sostitutiva (sulla recente giurisprudenza in materia di dimissioni e rinuncia al preavviso si veda il nostro approfondimento “Dimissioni e rinuncia al preavviso: anche la Cassazione conferma che al dipendente non spetta l’indennità sostitutiva”). 

Quando ricorre la giusta causa di dimissioni?

Si deve trattare di un comportamento datoriale che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro. Per costante indirizzo giurisprudenziale, la giusta causa alla base delle dimissioni del lavoratore è connessa a situazioni di obiettiva gravità che vengono principalmente individuate nell’inadempimento degli obblighi che costituiscono il corrispettivo della prestazione lavorativa e nella violazione del diritto del lavoratore al rispetto della propria personalità fisica e morale.

Tra le cause più frequenti di dimissioni per giusta causa, ad esempio, c’è il ritardato pagamento della retribuzione. Chiaramente sono altrettanto frequenti i casi in cui la giurisprudenza abbia escluso la sussistenza della giusta causa per tale ritardo.

Vediamo nel dettaglio le più recenti pronunce sul tema nonché una ricognizione dei casi in cui la giurisprudenza ha escluso la giusta causa di dimissioni.

Caso 1. Il dipendente che lavora durante il preavviso

Nel caso in cui il lavoratore manifesti la volontà di dimettersi per giusta causa (ad esempio, per mancato pagamento delle retribuzioni), ma acconsenta a continuare l’attività per tutto o per parte del periodo di preavviso, non ricorre la giusta causa di dimissioni. In tal caso, infatti, è lo stesso comportamento concludente del lavoratore ad escludere la sussistenza di circostanze tali da impedire la prosecuzione anche soltanto temporanea del rapporto. 

Solo nel caso in cui il lavoratore rivesta una posizione nell’organizzazione aziendale tale da renderlo indispensabile – per cui l’immediata cessazione delle sue prestazioni rischi di arrecare negative conseguenze al datore – la giusta causa di dimissioni sussiste ugualmente anche qualora il lavoratore ne posticipi l’effetto lavorando durante il preavviso.

Tale situazione non ricorre nel caso in cui l’esecuzione della prestazione successivamente alla data delle dimissioni sia dipesa da una scelta volontaria del lavoratore e non imposta da una valutazione di insostituibilità della sua prestazione (Cass. 7711/2019).

Caso 2. Il ritardo dello stipendio è breve e giustificato o è tollerato per lungo tempo

Il mancato pagamento della retribuzione per un periodo significativo può costituire giusta causa di dimissioni. Come visto nel paragrafo precedente, però, la giusta causa viene meno nel momento in cui il dipendente, dimessosi per mancato pagamento delle retribuzioni, scelga volontariamente di continuare a svolgere la prestazione durante il preavviso. 

Analogamente, la giurisprudenza è portata ad escludere la giusta causa di dimissioni anche nel caso in cui il ritardo nel pagamento delle retribuzioni sia coinciso con una situazione di grave crisi aziendale, tale da giustificare il ritardo.

Si pensi al caso della società che aveva chiesto l’ammissione al concordato preventivo per un conclamato stato di crisi aziendale. I dipendenti avevano inizialmente tenuto un comportamento tollerante e collaborativo di fronte ai ritardi del datore anche in considerazione del fatto che avevano comunque goduto dell’integrazione salariale corrisposta dall’Inps.  Nello specifico, dunque, si verteva in un’ipotesi di ritardato pagamento della retribuzione del tutto eccezionale, in presenza di conclamata crisi aziendale, in cui la fruizione della cassa integrazione concorsuale aveva comunque assicurato ai dipendenti i necessari mezzi di sostentamento. 

Sul punto i giudici hanno ritenuto che non potesse trovare applicazione la previsione del ccnl di settore che riconosce l’indennità sostitutiva del preavviso nel caso di dimissioni rassegnate per ritardo nel pagamento delle retribuzioni per un periodo superiore a 15 giorni. Ciò in quanto il ritardo del datore non era meritevole di sanzione essendosi protratto per un breve lasso temporale ed essendo causato da una grave crisi aziendale. A ciò si aggiunga che la reazione del lavoratore al ritardo non era stata tempestiva avendo il dipendente rassegnato le dimissioni dopo ben due mesi (Cass. 6437/2020). 

Accanto al caso in cui il ritardo nel pagamento degli stipendi sia di breve durata e causato da una grave crisi aziendale, si registra anche il caso in cui il ritardo rientri in una prassi consolidata all’interno dell’azienda e avallata dai dipendenti.

Sul punto la Cassazione ha escluso la sussistenza di una giusta causa di dimissioni in considerazione del fatto che nel caso di specie non solo il lavoratore era a conoscenza della prassi aziendale e l’aveva tollerata per anni, ma non l’aveva nemmeno contestata nell’ambito di un altro contenzioso con la società conclusosi con accordo conciliativo (Cass. 29008/2020). 

In conclusione, il ritardo nel pagamento della retribuzione costituisce giusta causa di dimissioni solo se assuma una particolare gravità, sia reiterato e non isolato e non sia accidentale o di breve durata, come evidenziato anche dalla Fondazione dei Consulenti del Lavoro con parere n. 5/2010. Inoltre, il lavoratore deve dimettersi immediatamente in quanto l’eventuale tolleranza spontanea implica la possibilità di una prosecuzione provvisoria del rapporto escludendo per definizione la giusta causa. 

Caso 3. Dimissioni dopo pochi giorni dal mutamento di mansioni 

Anche il demansionamento può costituire giusta causa di dimissioni, ma è necessario che il dipendente lo provi, non essendo sufficiente addurre una mera modificazione qualitativa o quantitativa degli incarichi.

Si segnala sul punto il caso del direttore di filiale che, a seguito di una ristrutturazione aziendale, era diventato responsabile di sportello avanzato e si era dimesso per giusta causa dopo soli 9 giorni dal mutamento dell’incarico.

In tal caso, le dimissioni rassegnate in così poco tempo (a differenza del caso in cui si tolleri a lungo il mancato o ritardato pagamento della retribuzione) impedivano di verificare quale fosse la differenza qualitativa e quantitativa tra i due incarichi e, quindi, di apprezzare una reale sussistenza della giusta causa di recesso.

A ciò si aggiunga che, per consolidata giurisprudenza, non è sufficiente qualunque modificazione della prestazione per costituire giusta causa di dimissioni, essendo, invece, necessario che essa incida sul livello professionale raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione nell’ambito aziendale e, con riguardo al dirigente, sulla rilevanza del ruolo (Cass. 11430/2006). 

Sulla base di tali argomentazioni la Cassazione ha rigettato il ricorso del dirigente che chiedeva l’accertamento della giusta causa di dimissioni e il conseguente diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso nella misura di 8 mensilità (Cass. 73/2017).

Caso 4. Dimissioni del consulente per il cambio di politica di credito della banca

Recente e molto interessante è un caso seguito dal nostro Studio, relativo a un consulente bancario dimessosi per asserita giusta causa consistita nella scelta della banca di cambiare la politica di concessione del credito con conseguente rischio di perdita di clientela.

La causa, particolarmente complessa, ha visto la banca cliente dello Studio vincitrice in tutti i gradi di giudizio: come chiarito dalla Suprema Corte, la politica del credito attivata da una banca rientra nell’ambito delle scelte discrezionali dell’imprenditore, al quale fa capo la clientela, e il suo mutamento non può in alcun modo costituire giusta causa di dimissioni.

Dall’istruttoria, inoltre, è emerso che le dimissioni del consulente non avevano altro scopo se non quello di accelerare il suo passaggio alla nuova datrice di lavoro, eliminando il dovuto preavviso e così anticipando la decorrenza del trimestre oggetto del patto di non concorrenza, della cui osservanza, peraltro, aveva chiesto di essere esonerato in caso di recesso. 

Altro elemento indiziario dal quale i giudici hanno evinto la simulazione della giusta causa di dimissioni è stata la concomitanza del passaggio di un importante cliente, per più favorevoli condizioni, alla nuova banca dove alla scadenza formale del patto di non concorrenza il consulente era poi transitato. 

In conclusione, la Cassazione ha confermato l’insussistenza della giusta causa di dimissioni, sia perché messa in relazione ad una condotta non inadempiente della datrice di lavoro, sia perché il recesso era risultato essere strumentale ad un comportamento del dipendente contrario a quanto contrattualmente pattuito tra le parti (Cass. 22247/2021).

Di: Avv. Wanda Falco

Per maggiori informazioni: comunicazione@toffolettodeluca.it
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