I modelli non sono lavoratori dello spettacolo

Last Updated on Ottobre 13, 2021

Di: Avv. Eleonora Zanucco

Nota: articolo aggiornato al 19 luglio 2021

In ambito previdenziale è sicuramente interessante, in quanto oggetto di un ampio dibattito, la questione relativa all’ambito soggettivo di applicazione dell’obbligo di iscrizione all’INPS – gestione ex ENPALS.

In particolare, ci si chiede se i modelli debbano essere considerati lavoratori dello spettacolo e se, conseguentemente, siano obbligati a iscriversi all’ENPALS.

Vediamo, pertanto, nel dettaglio l’evoluzione normativa in materia e gli approdi della giurisprudenza.

Obbligo di iscrizione alla gestione ex ENPALS: le fonti

L’Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spetta­colo (ENPALS) è stato istituito con Decreto Legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 708 del 16 luglio 1947, ratificato con modificazioni dalla L. 29 novembre 1952, n. 2388.

L’art. 3 del D. Lgs. C.P.S. cit. indica una serie di figure professionali, considerate tassative, obbligate ad iscriversi all’ENPALS (oggi confluito nell’Inps – gestione ex Enpals), indipendentemente dalla natura subordinata o autonoma della prestazione lavorativa.

Il secondo comma del predetto articolo, nell’originaria formulazione, consentiva che con Decreto del Capo dello Stato, su proposta del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, potesse essere esteso l’obbligo di iscrizione «ad altre categorie di lavoratori dello spettacolo».

Sulla base di tale disposizione, è stato emanato, tra gli altri, il Decreto del Presidente della Repubblica n. 203 del 19 marzo 1987, che ha aggiunto al punto 9 dell’art. 3 dell’elenco Enpals «gli indossatori e tecnici addetti alle manifestazioni di moda».

In considerazione dell’evoluzione delle professionalità operanti nel settore dello spettacolo, la legge n. 289 del 27 dicembre 2002, ha successivamente modificato il comma 2 dell’art. 3 cit., attribuendo al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale, il potere di «adeguare» le categorie dei soggetti assicurati (nonché di «integrare» e «ridefinire» «la distinzione in tre gruppi dei lavoratori dello spettacolo iscritti all’Enpals»).

Con Decreto ministeriale del 15 marzo 2005, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ha annoverato, tra le nuove qualifiche professionali assoggettate ad assicurazione obbligatoria i.v.s. dello spettacolo, anche i fotomodelli.

Le questioni di legittimità costituzionale

La Corte di Cassazione, con numerose pronunce, tra cui, per prima, la n. 2554 del 5 febbraio 1991, ha evidenziato la necessità di disapplicare il citato D.P.R. n. 203/1987, in quanto ritenuto eccedente i limiti della legge delegante, che aveva conferito alla norma secondaria il potere di integrare l’elenco di cui all’art. 3 del D. Lgs. C.P.S. 708/1947 esclusivamente nell’ambito dei lavoratori dello spettacolo, non potendosi invece ritenere tali gli indossatori.

È da notare, infatti, che la norma istitutiva dell’ENPALS è precedente (1947) alla Costituzione e che, quindi, una delega senza limiti al potere esecutivo sarebbe in contrasto con l’art. 76 della stessa. Pertanto, per escluderne la incostituzionalità, la norma deve necessariamente essere intesa in senso restrittivo, imponendo che ogni modifica dell’elenco dei lavoratori compresi avvenga per legge e non per provvedimento amministrativo.

Negli anni, la giurisprudenza di legittimità è rimasta univoca nel ritenere che «il giudice di merito deve accertare soltanto la qualifica rivestita dai lavoratori e la loro inclusione nell’elenco degli assistiti in virtù di fonte di normativa primaria, oppure secondaria, purchè quest’ultima sia conforme alla delega legislativa di cui al D. Lgs. n. 708 del 1947, art. 3, comma 2» (Cass. 15 ottobre 2014, n. 21829, «potendo il giudice, eventualmente, sindacare la legittimità dei decreti autorizzati o delegati emanati ai sensi dell’ultimo comma di detta norma, disapplicandoli» (Trib. Milano 14 febbraio 2015).

Sulla scorta di tali principî deve ritenersi, ad avviso di chi scrive, egualmente illegittimo – e, conseguentemente, dovrà essere disapplicato dal Giudice – il D.M. del 15 marzo 2005 che, introducendo al punto 9) dell’art. 3 del D. Lgs. C.P.S. n. 708/1947 i fotomodelli ha ecceduto i limiti della delega legislativa. Anche il predetto decreto ministeriale, infatti, ha arbitrariamente ampliato la nozione di «spettacolo», giungendo a ricomprendervi la figura professionale del fotomodello che, per le sue peculiarità, analogamente alla figura dell’indossatore, deve ritenersi esclusa.

La nozione di spettacolo

Come visto, il novero dei soggetti rientranti tra i «lavoratori dello spettacolo» si è, con il tempo, progressivamente (e discutibilmente) esteso anche a figure che non ne facevano originariamente parte, senza che venisse tuttavia mai elaborata una nozione generale di tale categoria di lavoratori.

A colmare la lacuna normativa è intervenuta la giurisprudenza, chiarendo come la nozione di spettacolo si riferisca «non a qualsiasi forma di manifestazione con il concorso di pubblico, ma esclusivamente a quelle che propriamente hanno il fine di rappresentare ed interpretare un testo letterario o musicale, con personale abilità degli interpreti, rivolta a provocare il divertimento, inteso in senso culturalmente ampio, degli spettatori» (Cass. 5 febbraio 1991, n. 2554).

L’evoluzione giurisprudenziale ha, poi, esteso il concetto di spettacolo, ma non con riferimento ai caratteri sostanziali di rappresentazione destinata all’intrattenimento degli spettatori, bensì relativamente alle modalità di diffusione, ritenendo che dovesse essere definito spettacolo anche ciò che sia destinato ad una fruizione differita nel tempo da parte del pubblico.

Evoluzione: spettacolo e pubblicità

La problematica attiene alla netta differenziazione da sempre intercorsa tra (i) prestazioni artistiche rese nell’ambito dello spettacolo (film, programmi televisivi, rappresentazioni teatrali, concerti, musica resi da attori, cantanti, presentatori) ai fini ricreativi per il pubblico e (ii) prestazioni rese nell’ambito della realizzazione di pubblicità commerciali (servizi fotografici, sfilate e spot pubblicitari resi da modelle/i e indossatrici/ori) per la promozione di prodotti e servizi.

Sebbene, in via astratta, lo spettacolo possa essere utilizzato per finalità di promozione e la rappresentazione pubblicitaria possa assumere connotati di “spettacolarità”, le due categorie si distinguono sostanzialmente tra loro.

La nozione di spettacolo, infatti, presuppone una rappresenta­zione (teatrale, cinematografica, d’arte varia) di un’opera artistica e mai può realizzarsi in un fenomeno commerciale, promozionale, di vendita. Essa si caratterizza, quindi, per il fatto di trovare in sé stessa – e non in finalità ulteriori, commerciali o di altro genere – la sua ragione d’essere.

Al contrario, una manifestazione commerciale non ha mai tale peculiarità e si contraddistingue unicamente per la sua finalità promozionale.

Il logico corollario: i modelli non sono lavoratori dello spettacolo

Se questi sono, quindi, i criteri in base ai quali orientarsi nella complicata questione che ci occupa, la conclusione è chiara ed è una sola: i modelli e le modelle non sono «lavoratori dello spettacolo», in ragione dell’assenza della finalità di intrattenimento nell’attività da loro svolta che, al contrario, si contraddistingue per scopi strettamente commerciali.

Il pub­blico che accede a una sfilata, a prescindere dalle caratteristiche di gran­diosità e spettacola­rità della stessa (che possono ben esserci), lo fa per decidere se acquistare o meno quei determinati capi di abbigliamento, che successivamente, a sua volta, commercializzerà attraverso i propri negozi. Una sfilata, quindi, in nulla differisce da una qualunque altra presentazione di pro­dotti industriali; ad essa partecipa un pub­blico di “addetti ai lavori” e l’unico oggetto della loro attenzione sono i vestiti, null’altro. Potreb­bero teoricamente es­sere vestiti posti su un manichino, fermi, illuminati da una luce.

A tale conclusione è giunta anche la più recente giurisprudenza di merito.

La sentenza del Tribunale di Milano, Dott. Caroleo, 25 novembre 2020

La vicenda trae origine da un avviso di addebito e da un verbale unico di accertamento dell’INPS, per mezzo dei quali l’ente previdenziale ha ritenuto di assoggettare a contribuzione (ex) ENPALS tutti i compensi per le attività svolte dai modelli gestiti da un’agenzia di moda, che, nello specifico, avevano partecipato a sfilate di moda, presenziato negli show room e preso parte a servizi fotografici per la realizzazione di cataloghi e cartelloni pubblicitari.

Avverso tale verbale ha proposto opposizione l’agenzia di moda, sostenendo che i modelli non potessero considerarsi lavoratori dello spettacolo.

Stando alle prospettazioni dell’INPS, l’obbligo di iscrizione al Fondo lavoratori dello spettacolo deriverebbe da un duplice ordine di ragioni: i) la comparazione nominale, ossia la circostanza che indossatori e fotomodelli rientrano nelle categorie individuate dall’art. 3 D. Lgs. C.P.S. n. 708/1947 come successivamente modificato; ii) la finalità pubblicitaria insita nell’attività svolta dai modelli gestiti dall’agenzia, che dovrebbe comunque farsi rientrare nel settore dello spettacolo.

Con una pronuncia giuridicamente ineccepibile, il giudice confuta entrambe le argomentazioni dell’INPS e accoglie il ricorso dell’agenzia di moda, dichiarando l’inesistenza del credito vantato dall’ente previdenziale e annullando, per l’effetto, l’avviso di addebito e il verbale opposti.

In particolare, relativamente al primo ordine di considerazioni svolto dall’Istituto opposto, il giudice meneghino statuisce che non può darsi seguito alla semplice operazione di comparazione nominale poiché il requisito comune alle categorie elencate nell’art. 3 D. Lgs. C.P.S. è la dedizione stabile e professionale a quell’attività. È, quindi, necessario che si tratti di un «lavoratore non occasionale, non temporaneo, ma che esercita stabilmente una delle professioni elencate».

Quanto alla ricomprensione nel settore dello spettacolo delle attività a scopo pubblicitario, la sentenza in commento, svolto un breve excursus sui precedenti orientamenti giudiziali, chiarisce che, se non deve escludersi a priori l’assoggettabilità a contribuzione (ex) ENPALS di un’attività lavorativa per il solo fatto di essere destinata alla pubblicità, tuttavia «quel che deve essere vagliato è sempre il contenuto spettacolare della prestazione» e che «per “spettacolo” deve intendersi una manifestazione a carattere artistico-ricreativo indirizzata ad un pubblico presente o virtuale». E sul punto, conclude il Tribunale, l’INPS – su cui gravava il relativo onere – non ha provato il contenuto artistico ed effettivamente spettacolare delle prestazioni lavorative contestate.

La sentenza in commento è stata confermata in grado di appello (Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 203 del 10 maggio 2021).

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