Quali condotte del lavoratore possono giustificare il licenziamento? Focus su alcune recenti sentenze

 L’art. 7 St. Lav. prevede che «le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti». 

In sostanza, come in qualsiasi sistema sanzionatorio, è necessario che le condotte vietate e le sanzioni previste per la violazione dei divieti siano conoscibili da tutti i dipendenti affinché possano adeguare i loro comportamenti agli obblighi generali di diligenza e fedeltà e astenersi da condotte illecite. 

Tuttavia, secondo la giurisprudenza consolidata la pubblicità del codice disciplinare non è presupposto necessario della legittimità del licenziamento quando si vanno a sanzionare condotte del lavoratore che:

  • costituiscono violazione di norme penali;
  • contrastano con il cosiddetto “minimo etico” ovvero con i doveri fondamentali del lavoratore, anche previsti dal codice civile (es. art. 2104 e 2105 cod. civ.) e con le regole basilari della convivenza civile.

In altre parole, non è necessaria l’affissione del codice disciplinare laddove le violazioni contestate consistano in comportamenti immediatamente percepibili dal lavoratore come illeciti e, quindi, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (si vedano in tal senso Cass. 4784/2023, Cass. 31150/2022, Cass. 29138/2022).

Fatta questa necessaria premessa, sorge spontaneo chiedersi quali condotte del lavoratore possano legittimare un licenziamento disciplinare.

Nei primi mesi del 2023 la Cassazione ha confermato la legittimità di alcuni licenziamenti per giusta causa per fattispecie, alcune abbastanza frequenti altre piuttosto singolari, che esamineremo nel dettaglio nei paragrafi seguenti. 

Assenza ingiustificata per arresto in operazione antidroga

Il primo caso che andiamo ad esaminare riguarda il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente per assenza ingiustificata di oltre 20 giorni, dovuta all’arresto nel corso di un’operazione antidroga

La Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per l’inadempimento dell’obbligo, previsto dal CCNL Terziario, di giustificare le assenze entro 48 ore. Come chiarito dai giudici di legittimità, la carcerazione preventiva non configura di per sé un impedimento assoluto alla comunicazione scritta dell’assenza: è onere del lavoratore dimostrare l’assoluta impossibilità di far pervenire la comunicazione tramite il proprio legale, onere, nella specie, non assolto dal dipendente.

Bisogna, infatti, tenere ben distinto l’obbligo di rendere la prestazione lavorativa vera e propria dall’obbligo, ad essa esterno, di comunicazione scritta dell’assenza che ricorre anche nel caso – come quello di specie – in cui l’assenza non sia arbitraria (Cass. 3363/2023).

Imprecazioni e minacce della guardia giurata contro i superiori

Del tutto singolare è il caso del licenziamento della guardia giurata che, dopo essere stata ascoltata dall’Amministratore delegato della società in sede di presentazione delle giustificazioni nell’ambito di un procedimento disciplinare, aveva estratto – in preda all’ira – la pistola dalla fondina e proferito parolacce e minacce nei confronti del superiore.

L’episodio è stato reputato idoneo a giustificare il licenziamento per l’obiettiva gravitàdella minaccia nei confronti del titolare del potere disciplinare e per la pericolosità della condotta tenuta dal dipendente in violazione di semplici ed intuitive regole di cautela(Cass. 6584/2023).

Uso del display dell’autobus per manifestare dissenso contro il vaccino

È stata confermata anche la legittimità del licenziamento per giusta causa dell’autista di mezzi pubblici che ha utilizzato il display del veicolo, destinato a rendere visibile all’utenza l’itinerario, per manifestare la propria opinione sulle vaccinazioni in maniera, peraltro, scurrile (vaccinati sto****). La foto del mezzo era stata anche pubblicata su un gruppo Facebook e accompagnata da un post denigratorio della società.

Come argomentato dai giudici di merito, l’autista si è: 

  1. avvalso della propria condizione per utilizzare un bene aziendale come strumento di manifestazione del proprio pensiero, distogliendolo dalla sua funzione di indicatore della linea e della destinazione nonché di mezzo di comunicazione di eventuali emergenze; 
  2. reso, con azione disonorevole, indegno della pubblica stima tant’è che sul medesimo social, ove era stata postata la foto, un interlocutore gli aveva detto che meritava di essere licenziato.

In altre parole, il comportamento del dipendente – caratterizzato da notevole disvalore sociale – è consistito nella appropriazione, sia pure temporanea, di un bene aziendale per uso personale, accompagnata da affermazioni di scherno, sprezzanti e fortemente denigratorie idonee a ledere l’immagine nonché la fiducia del datore (Cass. 7293/2023).

Spese carburante “gonfiate” per l’uso dell’auto aziendale 

Condotta abbastanza frequente, invece, è quella del dipendente che addebiti alla società spese di carburante per l’uso dell’auto aziendale eccessive rispetto al chilometraggio effettivamente dichiarato e percorso. La sproporzione tra le spese dichiarate dal lavoratore per i rifornimenti di carburante e i chilometri effettivamente percorsi dall’auto aziendale ha come unica spiegazione quella dell’uso del denaro aziendale per scopi diversi da quelli inerenti all’esecuzione della prestazione lavorativa.

L’utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati costituisce una condotta tale da far venir meno l’affidamento nel corretto futuro adempimento degli obblighi contrattuali.

Per tali ragioni la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa respingendo anche l’eccezione di tardività della contestazione disciplinare.

È stato, infatti, ritenuto conforme a buona fede il controllo eseguito dalla società sulle spese solo al momento della redazione del bilancio annuale. 

I giustificativi di spesa – nel caso di specie – erano consegnati dal dipendente con cadenza mensile e in teoria il datore era in condizione di controllare mensilmente le spese eseguite in relazione ai chilometri percorsi. Tuttavia, come evidenziato dai giudici, nel rapporto di lavoro in generale, e in particolare quando si assegnano al dipendente l’auto aziendale e la carta di credito intestata alla società, si fa affidamento sul corretto utilizzo di tali strumenti di lavoro in funzione esclusiva delle esigenze connesse alla prestazione.

In altre parole, non si può esigere un controllo costante da parte del datore «che presupporrebbe null’altro che una pregiudiziale sfiducia nell’operato del dipendente e, quindi, la negazione di quel patto di reciproca fiducia che sta alla base di ogni rapporto negoziale e del rapporto di lavoro in special modo» (Cass. 7467/2023).

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