Last Updated on Ottobre 13, 2021
L’indennità di cessazione del rapporto costituisce indubbiamente uno degli istituti più importanti sul piano della tutela dell’agente, e, al tempo stesso, uno degli aspetti maggiormente critici e problematici nell’ambito del rapporto di agenzia.
L’evoluzione della norma e le modifiche introdotte dalla Direttiva 86/653/CEE
In origine, l’art. 1751 c.c. fondava la determinazione dell’indennità su due criteri oggi completamente irrilevanti: la durata del rapporto e l’ammontare delle provvigioni corrisposte nel corso dello stesso, rinviando alla contrattazione collettiva per la quantificazione. Conseguentemente, tanto maggiore fosse la durata del contratto e l’ammontare delle provvigioni ricevute, quanto maggiore sarebbe stato l’importo dell’indennità dovuta all’agente al momento della cessazione del rapporto.
Una profonda modificazione dell’art. 1751 c.c. si è resa necessaria in seguito alla Direttiva comunitaria 86/653/CEE del 18 dicembre 1986 «relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti» i cui artt. 17 – 19 hanno disciplinato l’indennità di fine rapporto in maniera completamente diversa.
L’art. 17, comma 1 della Direttiva, dispone infatti che «gli Stati membri prendono le misure necessarie per garantire all’agente commerciale, dopo l’estinzione del contratto, un’indennità in applicazione del paragrafo 2 o la riparazione del danno subìto in applicazione del paragrafo 3».
I due regimi di indennità proposti dalla Direttiva derivano da due modelli legislativi esistenti in Europa: quello tedesco e quello francese.
Il sistema «francese», previsto nel paragrafo 3 dell’art. 17 della Direttiva, consiste nella corresponsione a favore dell’agente di un risarcimento del danno subìto dall’agente per il fatto stesso della cessazione del rapporto, derivante dal mancato guadagno e dalle spese sostenute per l’esecuzione del contratto. In questo caso, la norma non pone alcun criterio di calcolo, lasciando al giudice la determinazione del risarcimento.
Il sistema «tedesco», previsto nel paragrafo 2 dell’art. 17 della Direttiva, che trova origine nell’art. 89b del codice di commercio tedesco, consiste, invece, nel pagamento di un’indennità all’agente, qualora questi abbia sviluppato la clientela esistente o abbia procurato nuovi clienti che restino al preponente anche dopo la cessazione del rapporto.
In particolare, analogamente a quanto previsto dalla normativa tedesca, la Direttiva prevede all’art. 17, n. 2, lettera a) che l’agente abbia diritto al pagamento di un’indennità, se e nella misura in cui siano soddisfatte le seguenti due condizioni:
1. che l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti ed il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti, ed inoltre
2. che il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.
Il punto b) dello stesso comma della norma comunitaria stabilisce il limite massimo, determinato come nella norma tedesca in un’annualità calcolata sulla base della media delle provvigioni ricevute dall’agente negli ultimi cinque anni o sulla media del periodo inferiore, se il rapporto è durato meno.
Ed infine, il punto c) lascia salva la facoltà dell’agente di richiedere un risarcimento dei danni, ulteriore e diverso.
Qualora si verifichino i requisiti elencati nella norma, l’indennità è dovuta in tutti i casi di scioglimento del contratto (art. 18), con la sola esclusione delle ipotesi in cui il preponente risolva il contratto per una giusta causa imputabile all’agente, oppure nel caso in cui sia l’agente a recedere dal contratto (a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze tali da non consentire all’agente la prosecuzione dell’attività, quali età, infermità o malattia), o infine nel caso in cui l’agente ceda, d’accordo con il preponente, il proprio contratto ad un terzo.
Da ultimo, l’art. 19 della Direttiva sancisce l’inderogabilità della norma, prima della scadenza del contratto, a sfavore dell’agente.
L’Italia ha dato attuazione alla Direttiva con due successivi interventi legislativi (D.lgs. 10 settembre 1991, n. 303 e D.lgs. 19 marzo 199, n. 64) adottando il «sistema tedesco», come tutti gli altri paesi europei (con la sola esclusione della Francia che ha mantenuto il sistema preesistente, del Regno Unito e dell’Irlanda che non hanno operato alcuna scelta, riportando, incomprensibilmente, entrambe le opzioni).
Tuttavia, l’art. 1751 c.c. nel suo testo attuale non costituisce ancora la puntuale attuazione della Direttiva comunitaria, per la mancanza della locuzione «e nella misura in cui», che implica che le condizioni previste dalla norma siano utilizzate sia per la sussistenza del diritto che per la sua determinazione. La locuzione («e nella misura in cui»), è da intendersi comunque contenuta nell’art. 1751 c.c. per il principio di interpretazione conforme del diritto comunitario, cosicché, le condizioni contenute nel 1° comma dell’art. 1751 c.c. determinano sia l’an che il quantum dell’indennità [F. Toffoletto, Il Contratto di Agenzia, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, Giuffrè Editore, 2008, 258; E. Saracini– F. Toffoletto, Il Contratto di Agenzia, in Commentario Schlesinger, Giuffrè Editore, 2014, 470].
Le condizioni previste dal 1751 per aver diritto all’indennità
L’art. 1751, 1° comma, c.c. prevede che all’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità solo se («e nella misura in cui») ricorrano le seguenti condizioni:
- l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
- il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.
Perché sussista il primo requisito è necessario, da un lato, verificare se l’agente abbia o meno procurato nuovi clienti o se i clienti già acquisiti dal preponente, siano stati, per opera dell’agente, sviluppati «sensibilmente», in misura superiore, cioè, ad una crescita fisiologica derivante da un normale incremento delle condizioni del mercato o dal settore in cui l’agente operi. In altre parole, lo sviluppo delle relazioni commerciali con un cliente preesistente deve essere così rilevante da poter considerare tale ampliamento economicamente equivalente all’acquisizione di un nuovo cliente.
Dall’altro lato, occorre che tali clienti (nuovi o sviluppati), e solo questi, continuino a concludere affari con il preponente anche dopo la cessazione del rapporto con l’agente.
È necessario, quindi, che il valore prodotto dall’agente rimanga, in futuro, al preponente, dopo la cessazione del rapporto, essendo irrilevante che durante il rapporto l’agente abbia aumentato il fatturato sviluppando, anche considerevolmente, gli affari del preponente: il vantaggio che il preponente ha ricevuto durante il rapporto, infatti, è stato già compensato dalle provvigioni pagate.
In alcune sentenze di merito, si è, erroneamente, ritenuta sufficiente la sola dimostrazione di un aumento del fatturato nella zona affidata all’agente nel corso del rapporto (o delle provvigioni percepite), senza verificare quale parte di tale fatturato fosse attribuibile a clienti nuovi o sviluppati dall’agente e senza verificare se il preponente traesse ancora benefici da tali clienti [Trib. Bari 16.06.2016 n. 3342; Trib. Milano 28.10.2000].
Nel caso di cessazione dell’attività da parte del preponente non può essere riconosciuta all’agente alcuna indennità, venendo a mancare il requisito della permanenza di sostanziali vantaggi per il preponente (Trib. Torino 23.11.2009; Trib. Ferrara 2.5.2005 in Lav. giur., 06, p. 363).
È determinante, infine, che il valore prodotto dall’agente sia stabile, dovendo permanere anche dopo la cessazione del rapporto, e rilevante. Quindi, la norma è applicabile soltanto alla clientela fissa.
Qualora si realizzi tale prima condizione, occorre, inoltre, che il pagamento di tale indennità «sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti». Si tratta, quindi, di valutare la perdita subìta dall’agente in termini provvigionali con riferimento alla clientela nuova o sostanzialmente sviluppata.
Nel sistema tedesco, da cui come detto il sistema della direttiva deriva, l’equità ha una funzione correttiva finale, che generalmente interviene soltanto per ridurre l’importo dell’indennità già determinata, assai raramente per aumentarlo, tenendo conto di alcuni aspetti relativi al contratto prevalentemente connessi allo sforzo realizzato all’agente: così, tale indennità viene solitamente ridotta qualora il compito dell’agente sia stato facilitato, ad esempio, da rilevanti investimenti pubblicitari, dal lancio di nuovi prodotti o dalla forza del marchio e in generale al fine di correggere situazioni in cui l’ammontare dell’indennità sia sproporzionato rispetto all’effettivo ruolo dell’agente.
Invece, la Corte di Giustizia europea con sentenza del 26 marzo 2009 C-348/07, Turgay Semen c. Deutsce Tamoil GmbH ha chiarito che l’art. 17, n. 2, lett. a) della Direttiva non consente che il diritto dell’agente all’indennità di fine rapporto sia limitato alle perdite di provvigioni risultanti dalla cessazione del rapporto contrattuale, quando i vantaggi mantenuti dal preponente siano superiori. Sul punto, quindi, la Corte di Giustizia conclude ritenendo il sistema tedesco, o, quanto meno l’applicazione che di esso dà la giurisprudenza, in contrasto con le norme inderogabili della Direttiva. Quindi, il Giudice, valutate tutte le circostanze del caso, può anche decidere di aumentare l’indennità già determinata.
Quando non spetta l’indennità di cessazione del rapporto
L’indennità non è dovuta – oltre che nei casi in cui non ricorrano i presupposti di cui al 1° comma dell’art. 1751 c.c., altresì nei casi di (a) recesso del preponente per un inadempimento imputabile all’agente, che per la sua gravità non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto (b) recesso dell’agente; (c) cessione, da parte dell’agente, del proprio contratto ad un terzo.
Come si calcola l’indennità di cessazione del rapporto
In attuazione dell’art. 17 della Direttiva comunitaria 86/653/CEE del 18 dicembre 1986 «relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti» , la Commissione Europea in data 23 luglio 1996 ha predisposto una Relazione sull’applicazione di tale norma comunitaria.
Tale Relazione spiega nel dettaglio il procedimento di calcolo da utilizzare per la determinazione dell’indennità di cessazione del rapporto che si sviluppa in tre fasi:
- la prima fase consiste nell’accertare il numero di nuovi clienti e i clienti esistenti ma notevolmente sviluppati considerando la provvigione lorda corrisposta negli ultimi 12 mesi del rapporto relativamente a tali clienti; occorre poi effettuare una stima, calcolata in termini di anni, della probabile durata futura dei vantaggi che deriveranno al preponente dagli affari con tali clienti. Solitamente per tale valutazione si considera un periodo di tre anni, fino ad un massimo di cinque. Occorre poi tener conto del c.d. tasso di migrazione della clientela, dal momento che nel tempo, secondo l’id quod plerumque accidit, una certa parte della stessa si allontana naturalmente e viene perduta. La cifra ottenuta viene infine ridotta, deducendone gli interessi, per calcolare il valore attuale tenendo conto del fatto che gli introiti vengono incamerati anticipatamente.
- Nella seconda fase subentra il criterio dell’equità. In pratica la cifra calcolata può essere aggiustata per motivi di equità. La Relazione prevede che debbano essere presi in considerazione i seguenti fattori:
- se l’agente lavori con altri preponenti;
- eventuale colpa dell’agente;
- livello di retribuzione dell’agente;
- diminuzione del fatturato del preponente;
- ampiezza dei vantaggi derivati al preponente;
- pagamento di contributi pensionistici da parte del preponente;
- esistenza di clausole di limitazione degli scambi commerciali.
- Nella terza ed ultima fase occorre verificare che l’indennità, non superi l’importo massimo stabilito dalla norma, equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle provvigioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni o nel minore periodo di durata del contratto. Si tratta di un limite, fissato a protezione del preponente, che dovrà essere utilizzato soltanto dopo aver determinato l’indennità secondo i principî e le condizioni appena esposte e non può costituire mai un modo autonomo di determinazione dell’indennità in esame. La Relazione del 1996 propone, poi, il seguente esempio:
«Provvigioni su clientela nuova e/o intensificata negli ultimi 12 mesi di agenzia 50.000 Euro Durata prevista dei benefici pari a tre anni con tasso di migrazione del 20%
Anno 1 50.000 – 10.000 = 40.000 Euro
Anno 2 40.000 – 8.000 = 32.000 Euro
Anno 3 32.000 – 6.400 = 25.600 Euro
Totale provvigioni perdute 97.600 Euro
Correzione al valore attuale, ad esempio 10% 87.840 Euro
Quest’ultima cifra è pari all’indennità effettiva. Essa può essere aggiustata per motivi di equità (fase 2 sopra)
Va effettuata una correzione finale se l’importo risulta superiore al massimo previsto dall’art. 17, paragrafo 2, lettera b) della direttiva».
La disciplina contenuta negli AEC ed il contrasto con l’art. 1751 c.c.
Gli AEC prevedono un’indennità per la cessazione del rapporto completamente diversa, nei presupposti e nelle modalità di calcolo, da quella prevista dall’art. 1751 c.c., ignorando non solo il testo ma anche la finalità della norma di legge, che premia gli agenti meritevoli che con la propria attività siano stati in grado di costituire una clientela stabile a favore del preponente per il periodo successivo alla cessazione del rapporto.
Per le norme collettive sono, quindi, del tutto irrilevanti i vantaggi che il preponente riceverà nel periodo successivo alla cessazione del rapporto (che costituiscono invece uno dei presupposti dell’art. 1751) e rilevano solo le provvigioni percepite dall’agente nel corso del rapporto e la sua durata. Inoltre, si prescinde dal fatto che l’agente abbia o meno portato nuovi clienti o sviluppato sensibilmente quelli esistenti, se non per una minima parte quasi irrisoria.
L’AEC Industria del 30 luglio 2014 prevede all’art. 10 un’indennità distinta in tre voci:
- Indennità di risoluzione del rapporto (F.I.R.R.), riconosciuta all’agente «anche in assenza di un incremento della clientela e/o del giro di affari»;
- Indennità suppletiva di clientela, riconosciuta all’agente «in assenza di un incremento della clientela e/o del giro d’affari» ed è connessa esclusivamente all’ammontare delle provvigioni percepite nel corso del rapporto;
- Indennità meritocratica, inserita nell’attuale testo dell’AEC e collegata all’incremento della clientela e/o del giro di affari e ai vantaggi in capo al preponente dopo la cessazione del rapporto e determinata sulla base di un sistema di calcolo definito ai sensi del successivo art. 11 che peraltro tiene ancora conto dell’ammontare delle provvigioni e della durata del contratto.
Medesimo impianto, con minime varianti, ha l’AEC Commercio del 16 febbraio 2009.
La sentenza della Corte di Giustizia del 23 marzo 2006 C- 465/04 e la nullità delle clausole degli AEC
Tenuto conto della diversità del sistema indennitario previsto dalla norma legale rispetto a quello della norma collettiva, è evidente come quello della derogabilità dell’art. 1751 c.c. da parte della contrattazione collettiva sia certamente il tema più dibattuto.
Il penultimo comma dell’art. 1751 c.c., infatti, prevede l’inderogabilità della norma a svantaggio dell’agente. Si tratta, dunque, di un’inderogabilità relativa che permette alla contrattazione individuale e collettiva una deroga solo se consentano all’agente di percepire, con valutazione ex ante, un’indennità pari o superiore a quella massima prevista dal comma 3 dell’art. 1751 c.c.
Il dibattito, tuttavia, potrebbe dirsi ormai superato dalla sentenza della Corte di Giustizia del 23 marzo 2006 C-465/04 Honyvem c. De Zotti , che investita della questione su rinvio ex art. 234 Trattato CE da parte della Corte di cassazione, ha ritenuto invalide le clausole dell’AEC relative alle indennità, poiché incompatibili con il sistema previsto dalla Direttiva.
In particolare, le due questioni pregiudiziali poste alla Corte di Giustizia sono: 1) se la normativa nazionale di attuazione della Direttiva possa consentire che un accordo (o contratto) collettivo preveda, invece che un’indennità dovuta all’agente nel concorso delle condizioni previste dal paragrafo 2 dell’art. 17 e liquidabile secondo criteri desumibili dal medesimo, un’indennità che, da un lato, sia dovuta all’agente a prescindere dalla sussistenza dei presupposti di cui ai due trattini della lett. a) di detto paragrafo 2 (e, per una parte dell’indennità stessa in ogni caso di risoluzione del rapporto), e, dall’altro, sia quantificabile non già secondo i criteri ricavabili dalla Direttiva; 2) se il calcolo dell’indennità debba essere compiuto in maniera analitica, mediante la stima delle ulteriori provvigioni che l’agente presumibilmente avrebbe potuto percepire negli anni successivi alla risoluzione del rapporto, in relazione ai nuovi clienti da lui procurati o al sensibile sviluppo da lui procurato degli affari con clienti preesistenti, e la applicazione solo successiva di eventuali rettifiche dell’importo, in considerazione del criterio dell’equità e del limite massimo previsto dalla Direttiva; oppure se siano consentiti metodi di calcolo diversi, e, in particolare, metodi sintetici, che valorizzano più ampiamente il criterio dell’equità.
In relazione alla prima questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia ricorda, in primo luogo, che il sistema dell’indennità, contenuto negli artt. 17-19 della Direttiva, ha carattere imperativo e le eventuali deroghe vanno interpretate in senso restrittivo, secondo quanto affermato più volte dalla giurisprudenza comunitaria.
Sulla base di tali premesse e posto che il regime indennitario istituito dalla Direttiva può essere derogato solo a condizione che la deroga sia migliorativa per l’agente e sia pattuita «prima della scadenza del contratto», la Corte di Giustizia ha affermato che la valutazione della natura (in meliusoin pejus) della predetta deroga debba essere effettuata ex ante, ossia al momento della sottoscrizione del contratto e non dopo la cessazione del rapporto (punto 25 della sentenza). In altri termini, la deroga può essere ammessa solo se, nel contratto sottoscritto tra le parti risulti, con certezza, che, alla cessazione del contratto, l’agente percepisca un’indennità pari o superiore al massimo previsto.
Ciò significa, in base all’insegnamento della Corte di Giustizia che l’unica deroga valida in quanto ex ante più favorevole all’agente potrebbe essere solo quella che: 1) garantisca certamente all’agente un’indennità superiore o almeno pari a quella che risulterebbe dall’applicazione dell’art. 17 della Direttiva (punto 28 della sentenza); ovvero 2) quella che desse la possibilità di cumulare, anche solo parzialmente, l’indennità calcolata secondo le disposizioni dell’accordo collettivo con l’indennità prevista dal regime istituito dalla Direttiva (punto 31 della sentenza).
Alla luce di tali principî, la Corte di Giustizia conclude che gli AEC in quanto non rientrano né nell’una né nell’altra ipotesi, non possono validamente derogare il sistema imperativo previsto dalla Direttiva e, sono quindi nulli per violazione di una norma inderogabile di legge. Essi, infatti, non solo non prevedono sistematicamente a favore dell’agente un’indennità pari o superiore a quella della Direttiva ma neanche permettono la possibilità di cumulare l’indennità contrattuale con quella legale.
Sugli AEC, la Corte di Giustizia precisa, inoltre, che per il solo fatto che essi garantiscano comunque un’indennità anche qualora l’agente non ne abbia diritto in base ai criteri della Direttiva, non può condurre alla conclusione che essi costituiscano una deroga in melius del sistema indennitario previsto dalla Direttiva (punto 29 della sentenza).
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Giustizia conclude affermando che «l’indennità di cessazione del rapporto che risulta dall’applicazione dell’art. 17, n. 2, della direttiva non può essere sostituita, in applicazione di un accordo collettivo, da un’indennità determinata secondo criteri diversi da quelli fissati da quest’ultima disposizione a meno che non sia provato che l’applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all’agente commerciale un’indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall’applicazione della detta disposizione».
Con tale sentenza, dunque, la Corte di Giustizia ha fissato i seguenti principî necessari per interpretare ed applicare l’art. 1751 c.c.:
- la disciplina indennitaria prevista dall’art. 1751 c.c., così come quella dell’art. 17 della Direttiva, ha natura meritocratica (punto 5 della sentenza);
- la disciplina indennitaria prevista dalla Direttiva ha carattere imperativo, così come le norme nazionali che vi danno attuazione (punto 22 della sentenza);
- la deroga a tale disciplina può essere ammessa solo se sia possibile verificare ex ante che essa risulti più favorevole all’agente, alla cessazione del contratto (punto 27 della sentenza);
- gli accordi economici collettivi del 1992 (ma lo stesso principio può estendersi anche agli AEC attualmente in vigore) non possono derogare il sistema indennitario previsto dalla Direttiva, e quindi dall’art. 1751 c.c., in quanto prevedono dei criteri diversi da quelli fissati dalla Direttiva e non costituiscono, in base ad una valutazione ex ante, una deroga in melius per l’agente (punti 28, 29 e 32 della sentenza). Le norme degli AEC relative all’indennità, pertanto, sono nulle per contrasto con una norma imperativa ex art. 1418 e devono intendersi sostituite di diritto ex art. 1419, comma 2, dalla norma legale imperativa.
Sul punto concorda la dottrina maggioritaria:«gli attuali Accordi economici del settore industria e del settore commercio non sono validi, in quanto non garantiscono all’agente «in ogni caso un’indennità almeno pari a quella che lo stesso potrebbe ottenere in applicazione dell’art. 1751». E ancora si è osservato che «di conseguenza, sembra scontato che il giudice italiano debba giungere alla conclusione che le norme sull’indennità degli AEC derogano in pejus all’art. 1751 c.c. (in quanto non garantiscono all’agente in ogni caso un’indennità pari o superiore a quella che potrebbe ottenere applicando la norma del codice) deducendone che le stesse sono nulle per contrasto con una norma imperativa».
In relazione alla seconda questione posta dalla nostra Corte di cassazione, la Corte di Giustizia afferma che la Relazione 1996 cit. fornisce informazioni dettagliate circa il calcolo effettivo dell’indennità e, dall’altro lato, facilita un’interpretazione più uniforme di tale art. 17 della Direttiva (punto 35 della sentenza) e costituisce un modello da seguire per i giudici dell’Unione Europea.
Da ciò, la Corte ne fa discendere che, fermo restando il sistema di calcolo imperativamente previsto dalla Direttiva comunitaria (come esemplificato dalla Relazione 1996 cit.), gli Stati membri (attenzione: si noti gli Stati membri, quindi il legislatore, non l’autonomia collettiva che non ha nessuna potestà normativa, né i giudici) potrebbero solo intervenire nell’ambito del criterio dell’equità, e non, invece, adottare dei sistemi di calcolo differenti da quelli previsti dalla Direttiva.
Tra l’altro, è opportuno precisarlo, in assenza di una specifica norma di legge, che allo stato manca, neppure il giudice può discostarsi dai criteri fissati dall’art. 1751 c.c., che può essere soltanto interpretato come illustrato dalla Commissione nella citata Relazione 1996, richiamata espressamente dalla Corte di Giustizia.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Giustizia conclude affermando sul punto che «All’interno dell’ambito fissato dall’art. 17, n. 2 della direttiva 86/653, gli Stati membri godono di un potere discrezionale che essi sono liberi di esercitare, in particolare, con riferimento al criterio dell’equità».
L’orientamento della Corte di cassazione successivo alla sentenza della Corte di Giustizia del 2006.
Contrariamente al chiaro insegnamento della Corte di Giustizia che impone che il confronto per determinare la maggiore “favorevolezza” del trattamento pattizio rispetto a quello legale vada effettuato ex ante, cioè al momento della sottoscrizione del contratto e non alla sua cessazione, la Corte di cassazione ha ritenuto che l’operazione di confronto tra l’indennità ex art. 1751 c.c. e le disposizioni degli AEC vada effettuata a posteriori.
Il «raffronto tra le discipline legale e pattizia» – afferma C 06/21301 – «dev’essere effettuato con riferimento al caso concreto, pervenendosi alla dichiarazione di nullità della parte del contratto risultata sfavorevole all’agente. Ciò comporta per questo l’onere di provare nel giudizio di merito con dettagliati calcoli conformi ad entrambi i criteri, legale e contrattuale, la differenza peggiorativa, e per il preponente l’onere di provare il contrario, anche attraverso l’eventuale considerazione complessiva delle clausole e la relativa compensazione di vantaggi e svantaggi», ritenendo altresì che «l’art. 1751, comma 6, si interpreta nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive (nello stesso senso, C 09/16325; C 09/3614; C 08/687; C 07/16347; C 07/9538; C 07/5690; C 07/21088; C 08/687; C 08/ 13363; C08/23966; C 09/3614).
La giurisprudenza più recente (successiva al 2008) ha leggermente ridotto il ruolo della contrattazione collettiva, pur non arrivando a stabilirne la nullità, sostenendo che «In tema di indennità di cessazione del rapporto di agenzia, non può affermarsi una generale prevalenza della normativa contrattuale collettiva rispetto a quella legale né l’invalidità della normativa contrattuale per contrarietà all’art. 1751 c.c. perché, in seguito alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 23 marzo 2006, in causa C-465/04, Honyvem, interpretativa degli artt. 17 e 19 della Direttiva 86/653, per la quantificazione della suddetta indennità di cessazione del rapporto spettante all’agente, nel regime precedente all’accordo collettivo del 26 febbraio 2002 (che ha introdotto la “indennità meritocratica”), ove l’agente provi di aver procurato nuovi clienti al preponente o di aver sviluppato gli affari con i clienti esistenti (ed il preponente riceva ancora vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti) ai sensi dell’art. 1751 c.c., comma 1, è necessario verificare se – fermi i limiti posti dall’art. 1751 c.c., comma 3, – l’indennità determinata secondo l’accordo collettivo del 27 novembre 1992, tenuto conto di tutte le circostanze del caso e in particolare delle provvigioni che l’agente perde, sia equa e compensativa del particolare merito dimostrato, dovendosi, in difetto, riconoscere la differenza necessaria per ricondurla ad equità» (C 08/4056, confermata anche da C 09/6445; C 09/12724; C 10/15203; C 12/8295; C12/4149; C 13/18413; C 13/24776; C 14/25904; C 16/486). Di fatto la Suprema Corte mantiene comunque ferma la valutazione ex post in contrasto con le decisioni della Corte di Giustizia.
Tale orientamento è stato apertamente criticato in dottrina. Si tratta di una posizione inconciliabile con quanto affermato dalla Corte di Giustizia e quindi in aperta violazione del principio, pur ribadito nella sentenza stessa, secondo cui i giudici nazionali sono tenuti ad interpretare le norme che attuano le direttive europee in conformità delle stesse (v. Bortolotti-Bondanini, Il contratto di agenzia commerciale, Padova 2003 p. 36; F. Toffoletto, op. cit., p. 284; Basenghi, Il contratto di agenzia, p. 288; Baldi-Venezia, Il contratto di agenzia, Milano 2015 p. 438 ss.).
Decadenza e prescrizione
L’esercizio del diritto all’indennità è soggetto al termine decadenziale di un anno, entro il quale l’agente deve comunicare al preponente l’intenzione di far valere i propri diritti. Il termine inizia a decorrere dal momento dello scioglimento del rapporto, intendendosi per tale il momento di cessazione effettiva dello stesso, scaduto anche l’eventuale termine di preavviso.
Per la notifica sarà sufficiente che l’agente rediga un qualsiasi atto, anche stragiudiziale, con il quale richieda il pagamento dell’indennità, purché la richiesta sia specificatamente determinata. Inoltre, la comunicazione al preponente deve presupporre da parte dell’agente l’esatta qualificazione del titolo che origina il diritto [C 2017/3851].
Quanto al termine di prescrizione dell’indennità si applica la prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2948, c. 5, c.c. [E. Saracini– F. Toffoletto, Il Contratto di Agenzia, in Commentario Schlesinger, Giuffrè Editore, 2014, 493; C 08/15798], dal momento che il medesimo utilizza l’espressione «indennità spettanti per la cessazione del rapporto» senza limitazioni. Quindi, la circostanza che all’art. 2948, n. 5, c.c. si utilizzi l’espressione «indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro» senza aggiungere «subordinato» acquista un rilievo particolare se si tiene presente che siamo di fronte ad una disposizione inserita nel libro sesto del codice civile e più esattamente nel titolo quinto dedicato all’estinzione dei diritti, rispetto al quale pertanto non può di certo asserirsi che la subordinazione sia in re ipsa. Pertanto, la prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 5, c.c. si applica a tutti i tipi di rapporto «a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, dell’indennità medesima, ovvero del tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato» e la sua ragione giustificativa sta «nell’opportunità di sottoporre a prescrizione breve i diritti del lavoratore che sopravvivano al rapporto di lavoro, in quanto nati nel momento della sua cessazione e di evitare in tal modo le difficoltà probatorie derivanti dall’esercizio delle relative azioni troppo ritardate rispetto all’estinzione del rapporto sostanziale» [C 08/15798 in Ag. e rappr. comm., 16, I, con nota di A. Monda. Tra le sentenze di merito, v. Trib. Novara 25.05.2010].
L’art. 1751 per gli agenti di assicurazione
Con una recente sentenza (Cass. 8 agosto 2019, n. 21201), la Suprema Corte ha ribadito che la disciplina degli agenti di assicurazione, in base a quanto disposto dall’art. 1753 c.c., è contenuta negli usi e negli accordi collettivi del settore e solo in mancanza di questi è consentito applicare in via analogica le norme del codice civile in materia di agenti di commercio.
Sulla scorta di tale principîo, la Corte di cassazione esclude, quindi, l’applicazione dell’art. 1751 c.c. agli agenti di assicurazione prevalendo la disciplina degli accordi collettivi nazionali; sul punto vengono richiamati nella sentenza sia il contratto collettivo corporativo del 25 maggio 1939 che l’Accordo Nazionale Agenti del 1951 aventi entrambi efficacia erga omnes.
Inoltre, a giudizio della Corte di cassazione, l’art. 1751 c.c. non si applicherebbe agli agenti di assicurazione tenuto conto che la norma codicistica costituisce recepimento della Direttiva 86/653/CEE, il cui ambito di applicazione riguarda solo gli agenti commerciali.
In dottrina la questione è ancora aperta. Secondo E. SARACINI – F. TOFFOLETTO, Il Contratto di Agenzia, in Commentario Schlesinger, Giuffrè Editore, 2014, 581, l’art. 1751 si applica anche agli agenti di assicurazione, in quanto norma inderogabile ed imperativa, sicché è nulla, per contrasto con la medesima, ogni clausola contrattuale, collettiva o individuale, la quale sia comunque volta ad escludere o limitare il diritto dell’agente all’indennità di scioglimento del contratto nei termini sanciti dall’art. 1751.
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