Last Updated on Maggio 13, 2022
La pandemia ha messo in luce ancora una volta il grave divario di genere esistente nel mondo del lavoro. Il ruolo sociale della donna è ancora relegato ad una visione arcaica; durante la pandemia, venute meno le “reti di sostegno”, le donne sono state spesso costrette a sacrificare la propria occupazione per dedicarsi interamente alla famiglia. I dati statistici dimostrano inequivocabilmente che le donne più degli uomini hanno perso il lavoro a seguito della pandemia.
Eppure, ormai da decenni, il nostro legislatore introduce norme volte a garantire l’eguaglianza di genere.
Tali disposizioni si fondano sul principio di uguaglianza sostanziale ai sensi dell’art. 3 c. 2 Cost. e si concretizzano spesso in azioni positive, volta a rimuovere gli ostacoli che impediscono la parità di genere.
Fra queste disposizioni certamente si può menzionare l’art. 5 comma 2 della Legge 223/1991, che, in caso di licenziamento collettivo, impone che un’impresa non possa “licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione“.
Pur essendo la disposizione in vigore da quasi trent’anni, la sua interpretazione è ancora dubbia, tanto che sul tema sono intervenute due recenti sentenze della Corte di Cassazione.
Con le sentenze n. 14254/2019 e n. 26454/2021, la Suprema Corte ha precisato che la disposizione in commento non prevede una “comparazione fra numero di lavoratori dei due sessi prima e dopo la collocazione in mobilità”, ma impone di mantenere costante la percentuale di donne lavoratrici occupate prima e dopo la procedura.
La portata innovativa delle due pronunce si riscontra soprattutto in merito all’ambito in cui operare tale riscontro. La Corte ha precisato, infatti, che il confronto del personale da licenziare deve essere “circoscritto all’ambito delle mansioni oggetto di riduzione, cioè all’ambito aziendale interessato dalla procedura, così da assicurare la permanenza, in proporzione, della quota di occupazione femminile sul totale degli occupati”.
La Cassazione ha quindi superato l’interpretazione sostenuta da altra parte degli interpreti, che riteneva necessario, invece, verificare il mantenimento della percentuale rispetto a tutta la collettività aziendale e quindi anche rispetto ai dipendenti impiegati in mansioni diverse. Così applicata, tuttavia, la norma avrebbe potuto generare squilibri nei reparti, relegando le donne a mansioni specifiche.
La soluzione preferita dalla Suprema Corte, invece, previene tale rischio e alleggerisce la posizione giudiziale delle lavoratrici, che diversamente sarebbero costrette a porre a fondamento della propria domanda dati riferiti a mansioni o a reparti aziendali diversi dai propri e di cui potrebbero non essere compiutamente informate.
Nella promozione di azioni positive volte a garantire l’uguaglianza sostanziale di genere è di fondamentale importanza che il legislatore sia coadiuvato e sostenuto dagli interpreti, che devono sempre preferire una lettura volta a garantire la piena attuazione dei dettami costituzionali.
Di: Avv. Concetta Manganaro