Last Updated on March 6, 2020
Di: Avv. Wanda Falco
Nel corso della vita lavorativa di un dipendente può verificarsi la perdita dell’idoneità allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto, perdita parziale o totale che può essere causata dal sopraggiungere o dall’aggravarsi di una patologia fisica o psichica.
Cosa può fare l’azienda in questi casi?
Considerato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve costituire l’extrema ratio, il datore è chiamato a verificare la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni che siano adeguate alle nuove e diverse condizioni in cui versa il lavoratore. Tuttavia, questo obbligo di repêchage è soggetto ad alcuni limiti invalicabili.
Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.
L’obbligo di repêchage in caso di sopravvenuta inidoneità alla mansione
In tema di disciplina applicabile ai casi di sopravvenuta inidoneità alla mansione, deve ritenersi superato l’orientamento secondo cui in caso di definitiva perdita parziale della capacità lavorativa è legittima la risoluzione automatica del rapporto in applicazione dell’art. 1464 c.c. che, in caso di impossibilità parziale della prestazione nei contratti sinallagmatici, consente il recesso della parte che non abbia interesse a un adempimento parziale (Cass. 6106/1992).
La giurisprudenza, infatti, a partire dalla pronunzia della Cassazione a Sezioni Unite del 7 agosto 1998, n. 7755, ritiene che la regola della risoluzione automatica del contratto non possa trovare applicazione nel diritto del lavoro proprio per la specialità della materia; pertanto, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, come tale non riconducibile ad una forma di inadempimento del lavoratore, non estingue automaticamente il rapporto di lavoro, ma può costituire un giustificato motivo oggettivo di licenziamento che presuppone l’adempimento dell’obbligo di repêchage da parte del datore.
In sostanza, in caso di inidoneità alla mansione, il datore di lavoro prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve verificare se il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti – secondo la vecchia formulazione dell’art. 2103 c.c. – o a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte – secondo la nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. (sul punto si rinvia al nostro approfondimento “Nuovo 2103 c.c.: una panoramica a 4 anni dalla riforma”)
Inoltre, qualora non sia possibile individuare mansioni di questo tipo, il datore deve anche verificare se ci siano mansioni inferiori da offrire al lavoratore divenuto inabile. Infatti, se è vero che sotto la vigenza del vecchio art. 2103 c.c. era assolutamente vietato il demansionamento, la giurisprudenza ravvisava un’eccezione nel caso in cui questo rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale. In tale ipotesi, non era necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma era onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori (Cass. 10018/2016; Cass. 18020/2017; Cass. 27243/2018).
In sostanza, il sacrificio della professionalità acquisita dal lavoratore poteva essere giustificato a fronte dell’interesse alla conservazione del posto di lavoro, interesse ritenuto prevalente sulla inderogabilità del divieto di demansionamento.
Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. ammette espressamente il demansionamento fissando dei limiti; in particolare:
- in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, questi può essere assegnato (senza accordo) a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale;
- nelle sedi protette di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. o avanti alle commissioni di certificazione è possibile stipulare accordi di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Questi accordi possono superare anche il limite del livello di inquadramento inferiore, consentendo dunque la massima flessibilità nell’impiego del lavoratore.
Il limite invalicabile dell’obbligo di repêchage: la modifica dell’organizzazione aziendale
Esistono dei limiti all’obbligo di repechage del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità alle mansioni del dipendente. Infatti, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza, se da un lato vi è l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, dall’altro lato non si può chiedere al datore di lavoro di alterare l’organizzazione produttiva al fine di reimpiegare il lavoratore divenuto inidoneo.
In altre parole, l’obbligo in capo al datore di lavoro non può essere di portata tale da imporgli di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda da lui stesso insindacabilmente stabilito o da comportare oneri organizzativi eccessivi o da determinare a carico di singoli colleghi dell’invalido la privazione delle mansioni o lo stravolgimento delle modalità di esecuzione della loro prestazione lavorativa.
Ne consegue che è legittimo il licenziamento per sopravvenuta e permanente inidoneità di un lavoratore quando l’adozione degli opportuni adattamenti organizzativi comporti, oltre che oneri finanziari non proporzionati, un inasprimento dei rischi per la salute e sicurezza per gli altri lavoratori nonché inefficienze produttive (Cass. 27243/2018; Cass. 10018/2016).
Pertanto, l’ambito del sindacato giurisdizionale, con riferimento all’obbligo del repêchage, non può estendersi alla valutazione delle scelte gestionali e organizzative dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica privata tutelata dall’art. 41 Cost.; ne consegue che il detto obbligo non può ritenersi violato quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale (Cass. 6678/2019).
Vediamo, pertanto, qualche caso pratico di legittimità del licenziamento per GMO per impossibilità del datore di adibire il lavoratore ad altre mansioni senza alterare l’organizzazione aziendale e pregiudicare l’efficienza, la produttività e la sicurezza degli altri dipendenti.
Caso 1
Il primo caso esaminato riguarda un dipendente divenuto permanentemente inidoneo a svolgere le mansioni nei reparti di montaggio, stampaggio metallico e rifilatura flessibile ed integrale. L’unico reparto presso cui il dipendente avrebbe potuto svolgere attività lavorativa in relazione alle limitazioni funzionali accertate era quello di stampaggio materie plastiche. Tale assegnazione avrebbe, però, richiesto una diversa organizzazione del lavoro nel reparto stesso e avrebbe determinato un aggravamento della posizione dell’intero gruppo degli altri addetti allo stampaggio termoplastici, tenuti alla rotazione su postazioni più impegnative, con il conseguente maggior rischio a loro carico. Da ciò è conseguita la dichiarazione giudiziale di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Cass. 18556/2019).
Caso 2
Il secondo caso esaminato, invece, riguarda un benzinaio divenuto inidoneo in via permanente alla mansione a causa del linfoma contratto. Anche in questo caso il lavoratore avrebbe potuto essere solo adibito alla pompa self, ma tale adibizione, non integrando un profilo professionale autonomo, avrebbe comportato un adempimento soltanto parziale della prestazione lavorativa, lo spostamento di altri dipendenti e la modifica delle loro mansioni con conseguente maggiore esposizione a rischio per la salute obbligando, dunque, il datore a modificare l’organigramma aziendale. Anche in questo caso i giudici hanno dichiarato legittimo il licenziamento per GMO (Cass. 8419/2018).
Caso 3
Infine, si segnala il caso del magazziniere divenuto inidoneo a mansioni non sedentarie e licenziato in considerazione del fatto che le mansioni di magazziniere comportavano lo svolgimento di attività di movimentazione di merci e caricamento di pesi e che in azienda non erano disponibili mansioni compatibili con il suo stato di salute. Il lavoratore sosteneva che la società dovesse assegnargli il solo compito di gestire i dati del palmare, nonostante nell’organigramma aziendale non esistesse un posto di “addetto al palmare”.
I giudici hanno, invece, ritenuto legittimo il licenziamento, non potendosi pretendere che il datore di lavoro procedesse a modifiche delle scelte organizzative, per esempio, escludendo da talune posizioni lavorative le attività incompatibili con le condizioni di salute del lavoratore (Corte d’Appello di Napoli, sez. Lavoro, Sentenza del 21/01/2019, n. 6526).
Conclusioni
Come visto, l’obbligo di repêchage incombente sul datore di lavoro non è mai stato disciplinato dal legislatore, ma è frutto di una consolidata giurisprudenza secondo la quale, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo consiste non soltanto nella fisica inidoneità del lavoratore all’attività attuale, ma anche nell’inesistenza in azienda di altre attività, eventualmente anche di livello inferiore, compatibili con lo stato di salute del lavoratore. Tuttavia, è indispensabile ricordare che tale adempimento incontra un limite nel divieto di alterare l’organizzazione produttiva del datore. Dunque, nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti, non può pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a significative modifiche dell’assetto della sua organizzazione.
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