Last Updated on July 24, 2020
Di: Avv. Wanda Falco
Spesso il licenziamento disciplinare ha ad oggetto condotte del dipendente dotate di rilevanza penale in quanto integranti anche fattispecie di reato.
In tali ipotesi occorre capire che rapporti intercorrano tra il procedimento disciplinare e il processo penale e tra quest’ultimo e il processo civile (avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento).
In altre parole, bisogna capire se il datore di lavoro debba o meno attendere l’esito delle indagini o addirittura del processo penale per esercitare il potere disciplinare e se il processo civile sia in qualche modo condizionato dalla pendenza e dall’esito di quello penale.
Vediamo, pertanto, nel dettaglio cosa dice la giurisprudenza.
Autonomia del processo civile dal processo penale
Dalla nuova formulazione dell’art. 3 c.p.p. e, dunque, dall’abrogazione della “pregiudizialità penale” discende la completa autonomia e separazione delle valutazioni espresse nell’ambito del giudizio penale e di quello civile anche se entrambi riferiti all’accertamento dei medesimi fatti e delle medesime condotte (Cass. 19260/2019).
In applicazione del nuovo codice di procedura penale, dunque, il rapporto tra processo civile e processo penale si configura in termini di completa autonomia e separazione nel senso che, ad eccezione di alcune limitate ipotesi di sospensione del giudizio civile previste dall’art. 75 co. 3 c.p.p. (“se l’azione è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge”), detto processo deve proseguire senza essere influenzato da quello penale (Cass. 22494/2019).
Pertanto, qualora il comportamento di un dipendente possa configurare anche un’ipotesi di reato, non bisogna attendere l’esito del processo penale per valutare la legittimità o meno del licenziamento, se la condotta addebitata al lavoratore integri di per sé un’ipotesi di giusta causa.
La valutazione della gravità del comportamento, infatti, ha carattere del tutto autonomo rispetto alla valutazione della gravità del reato in quanto ciò che rileva è che la condotta tenuta dal dipendente sia idonea a ledere il vincolo fiduciario indipendentemente dal fatto che essa integri o meno una fattispecie di reato (Cass. 21549/2019).
Nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può, e deve, liberamente valutare le prove raccolte, in modo del tutto svincolato dal parallelo processo penale.
Irrilevanza del giudicato penale di assoluzione
Il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo del giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche quando l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità dello stesso all’imputato (ossia quando l’assoluzione sia stata pronunciata a norma dell’art. 530 comma 2 c.p.p. secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”).
Inoltre, l’esito assolutorio della sentenza penale, intervenuto “perché il fatto non costituisce reato” (come accade, ad esempio, in caso di esclusione dell’elemento soggettivo del reato), non è rilevante ai fini disciplinari, in relazione ai quali, al di là dell’apprezzamento della configurabilità della condotta come reato, rileva esclusivamente l’idoneità della stessa a scuotere la fiducia del datore di lavoro e la prognosi circa il pregiudizio per gli scopi aziendali che deriverebbe dalla continuazione del rapporto.
Si pensi al caso di un lavoratore licenziato per giusta causa per aver sottratto un navigatore satellitare e una torcia elettrica aziendale rinvenuti nel suo armadietto in occasione di una perquisizione dei Carabinieri. La Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento nonostante in sede penale il dipendente sia stato assolto dal reato di furto per carenza dell’elemento soggettivo: egli aveva pur sempre tenuto una condotta di “trafugamento di beni aziendali contro la volontà del datore”, punita dal CCNL con la massima sanzione e idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (Cass. 7127/2017).
Inoltre, se non c’è perfetta coincidenza tra la condotta oggetto del processo penale e quella oggetto del processo civile, risulta irrilevante anche l’assoluzione del lavoratore con la diversa formula “perché il fatto non sussiste”, se le condotte tenute dal lavoratore, pur non avendo rilevanza penale, sono comunque idonee a ledere il vincolo fiduciario.
Si pensi al caso del dipendente bancario che non abbia rispettato le norme antiriciclaggio omettendo di segnalare operazioni sospette. In tale ipotesi, anche se è stato assolto in sede penale dai reati di favoreggiamento e riciclaggio con la formula “perché il fatto non sussiste”, sul piano del rapporto di lavoro vengono in rilievo condotte connesse alla violazione di specifici doveri del dipendente, preposto a una filiale dell’istituto di credito e investito di ampi poteri gestionali anche di rappresentanza (Cass. 21548/2019).
Analogamente è stata confermata la legittimità del licenziamento disciplinare del medico ospedaliero che dopo un intervento chirurgico molto delicato si era allontanato dal luogo di lavoro e, pur avendo avuto contezza dell’esistenza di una gravissima sintomatologia ai danni del paziente da lui operato, aveva ritardato di ben tre ore il proprio rientro in ospedale.
Anche se in sede penale era stato assolto dall’accusa di omicidio colposo, in sede civile i giudici hanno ritenuto che il comportamento del medico così descritto costituisse violazione dei doveri di diligenza e fedeltà, fosse gravemente omissivo e professionalmente non etico, dunque, tale da ledere il vincolo fiduciario nonché l’immagine della P.A. datrice di lavoro (Cass. 18883/2019).
In conclusione, se è doveroso ritenere accertati anche nel giudizio civile gli stessi fatti ritenuti rilevanti in un precedente giudizio penale conclusosi con una sentenza di condanna divenuta definitiva, non è invece sempre possibile trarre da un giudicato di assoluzionedalla responsabilità penale la conseguenza automatica e vincolante per il giudizio civiledell’insussistenza di tutti i fatti posti a fondamento dell’imputazione. Può, infatti, verificarsi che alcuni di essi, pur rivelatisi nella loro indiscussa materialità non decisivi per la configurazione del reato, possano essere rilevanti ai fini civilistici (Cass. 31643/2018).
Rapporto tra processo penale e procedimento disciplinare
Accanto all’esame dei rapporti che intercorrono tra il processo penale e quello civile avente ad oggetto condotte disciplinarmente rilevanti del dipendente, è interessante esaminare i rapporti che intercorrono tra il processo penale e il procedimento disciplinare.
In sostanza, bisogna capire se in pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto condotte del dipendente di rilevanza anche disciplinare, il datore di lavoro possa procedere con la contestazione e il licenziamento o debba necessariamente attendere l’esito delle indagini o addirittura dell’intero processo penale.
Ciò rileva soprattutto ai fini della verifica della tardività o meno della contestazione disciplinare, che deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire piena e completa conoscenza della riferibilità del fatto al lavoratore: ciò comporta che il datore non deve necessariamente attendere gli esiti del processo penale prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività in relazione al momento in cui la condotta del lavoratore appare conoscibile nei suoi tratti essenziali indipendentemente dall’integrale accertamento degli stessi e dal raggiungimento della certezza della colpevolezza (Cass. 20163/2018; 23177/2017). Resta fermo che l’immediatezza della contestazione è compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore o la complessità dell’organizzazione aziendale siano tali da ritardare i tempi di percezione e di accertamento dei fatti e, quindi, di adozione dei relativi provvedimenti (Cass. 21557/2019).
Il datore non deve attendere l’esito del giudizio penale in quanto la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva (principio sancito dall’art. 27, co. 2, Cost.) concerne le garanzie relative alla pretesa punitiva dello Stato e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro del potere disciplinare in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa integrare gli estremi del reato: se i fatti commessi sono di tale gravità da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro non è necessario attendere la sentenza definitiva di condanna (Cass. 28914/2018).
Inoltre, non può assumere autonomo rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza del procedimento penale, considerata l’autonomia tra i due procedimenti e la circostanza che l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l’assenza di disvalore in sede disciplinare (Cass. 13675/2016).
Esiste, poi, qualche pronuncia secondo cui è legittima la scelta datoriale di differire la contestazione disciplinare al momento dell’emissione del decreto di rinvio a giudizio al fine di evitare accuse infondate ai danni del dipendente: in sostanza il datore prima di procedere in via disciplinare può attendere possibili eventuali sviluppi della vicenda in sede penale connessi alla chiusura delle indagini preliminari al fine di avere certezza dell’effettivo esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero con il rinvio a giudizio dell’indagato (Cass. 3904/2020).
In sostanza, secondo la giurisprudenza non bisogna necessariamente attendere l’esito del procedimento penale per esercitare il potere disciplinare, ma è lecito che il datore attenda almeno l’esito delle indagini preliminari prima di licenziare, perché spesso è proprio in quel momento che è maggiormente chiara la condotta tenuta dal dipendente.
A tal riguardo si segnala anche qualche pronuncia secondo cui quando il datore di lavoro dispone la sospensione cautelare del rapporto, in attesa, ad esempio, della conclusione delle indagini penali, manifesta con chiarezza la volontà di ritenere disciplinarmente rilevanti i fatti oggetto di procedimento penale: il passare del tempo non può far sorgere alcun legittimo affidamento del dipendente sulla scelta datoriale di soprassedere al licenziamento, fin quando perdura anche la sospensione cautelare.
In tal caso non viene in alcun modo violato il diritto di difesa poiché il lavoratore, sottoposto a procedimento penale, sa già che le condotte in relazione alle quali le indagini preliminari sono state avviate dall’autorità giudiziaria potranno essergli addebitate in sede disciplinare, e, quindi, è messo in condizione di predisporre per tempo la propria linea difensiva (Cass. 10017/2016).
Inoltre, la possibilità di differire la contestazione al momento della conclusione delle indagini penali, previa adozione del provvedimento di sospensione, riposa anche sulla necessità di salvaguardare il segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., in quanto la norma esclude che sino alla conclusione delle indagini preliminari possano essere resi noti gli atti rilevanti ai fini delle indagini (Cass. 14103/2014).
Conclusioni
Dall’autonomia del processo civile rispetto al processo penale e dall’impossibilità di applicare il principio di presunzione di non colpevolezza all’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro discende che non è necessario attendere l’esito del processo penale ai fini dell’irrogazione del licenziamento e della valutazione circa l’idoneità della condotta del dipendente a ledere il vincolo fiduciario.
Infatti, come abbiamo visto, l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del fatto addebitato al lavoratore non determina di per sé l’assenza di disvalore in sede disciplinare.
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