Last Updated on May 22, 2020
Di: Vanessa Forcolin
L’obbligo di repêchage consiste nell’obbligo per il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, di vagliare tutte le possibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda del lavoratore in esubero o divenuto inidoneo alle mansioni assegnategli.
Il c.d. repêchage è dunque connesso strettamente al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, consiste nel licenziamento dovuto a “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Infatti, nell’esercizio della propria attività di impresa, il datore di lavoro può decidere di sopprimere una posizione lavorativa, mosso da esigenze economiche o di riorganizzazione aziendale (es. innovazioni tecnologiche, redistribuzione delle mansioni tra altri dipendenti, esternalizzazione di una certa attività, sopravvenuta inidoneità alla mansione – su quest’ultimo aspetto si rinvia al nostro approfondimento “Inidoneità alla mansione e obbligo di repêchage: il limite invalicabile della modifica dell’organizzazione aziendale”).
Vediamo, dunque, nel dettaglio cosa si intende per “obbligo di repêchage” e quali sono i suoi limiti.
L’OBBLIGO DI REPÊCHAGE: L’ORIGINE GIURISPRUDENZIALE
La legge non parla di repêchage, ma semplicemente riconosce la possibilità per il datore di lavoro di procedere ad un licenziamento con preavviso per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3 della legge n. 604/1966).
Questa ampia libertà del datore consegue alla libertà di iniziativa economica privata tutelata a livello costituzionale ai sensi dell’art. 41 della Costituzione.
La giurisprudenza è quindi intervenuta in un’ottica di bilanciamento tra interessi costituzionali contrapposti:
- da una parte, la libertà di iniziativa economica e, quindi, la libertà del datore di eliminare risorse non più funzionali all’impresa;
- dall’altra, l’interesse del dipendente alla conservazione del posto di lavoro.
In quest’ottica, la giurisprudenza ha fondato la legittimità del licenziamento per GMO essenzialmente su tre elementi:
- l’effettività e non pretestuosità delle ragioni addotte;
- l’esistenza di un nesso causale tra le ragioni addotte e il licenziamento intimato;
- l’impossibilità di repêchage.
L’obbligo di repêchage è, dunque, una creazione giurisprudenziale: si tratta di un onere che la giurisprudenza ha posto in capo al datore ai fini della legittimità del licenziamento per GMO.
Con questa espressione ci si riferisce all’obbligo del datore, qualora ciò sia possibile, di reimpiegare il lavoratore da licenziare in mansioni diverse da quelle svolte in precedenza, in modo tale da consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro: il licenziamento, infatti, deve configurarsi come extrema ratio.
I LIMITI DEL REPÊCHAGE
Come anticipato, il datore di lavoro deve fare quanto possibile per evitare il licenziamento del dipendente. Tuttavia, non si può arrivare fino al punto di chiedere all’imprenditore uno sforzo irragionevole, che possa comportare un’alterazione dell’organizzazione aziendale o oneri economici ed organizzativi eccessivi.
Infatti, l’onere di repêchage ha comunque come limite “la ragionevolezza dell’operazione, che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore” (così Cass. 31521/ 2019).
I soggetti destinatari
L’obbligo di repêchage non sussiste nei confronti di tutti i dipendenti: i dirigenti ne sono esclusi. Infatti, imporre un tale obbligo in capo al datore è incompatibile con la posizione dirigenziale in riferimento alla quale è previsto un regime di libera recedibilità (cfr. Cass. 14193/2016; C. App. Roma 4073/2018).
Le mansioni da offrire
Prima di procedere con il licenziamento, il datore di lavoro dovrà verificare che nell’organigramma non siano presenti mansioni equivalenti – secondo la vecchia formulazione dell’art. 2103 c.c. – o mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte – secondo la nuova formulazione dell’art. 2103 c.c.: è infatti pacifico che tali mansioni siano coperte dall’obbligo di repêchage.
Per quanto riguarda le mansioni inferiori, già prima della modifica dell’art. 2103 c.c. la giurisprudenza aveva affermato che l’interesse alla conservazione del posto di lavoro dovesse prevalere sull’interesse al mantenimento della professionalità acquisita dal dipendente.
In ogni caso, l’orientamento giurisprudenziale che estende l’obbligo di repêchage alle mansioni inferiori è stato confermato in seguito alla modifica dell’art. 2103 c.c. che ammette espressamente il demansionamento; in particolare, esso può avvenire:
- in via unilaterale, nel caso in cui la modifica degli assetti organizzativi aziendali incida sulla posizione del lavoratore, con la possibilità per quest’ultimo di essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore comunque rientranti nella medesima categoria legale di appartenenza;
- mediante accordo in sede protetta, qualora la modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione avvenga nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
E’ chiaro che, come evidenziato dalla giurisprudenza, “l’aggravamento dell’onere gravante sul datore di lavoro in ordine all’impossibilità di repêchage anche rispetto a mansioni inferiori, determinato dall’entrata in vigore dell’art. 2103 c.c., non può tuttavia ritenersi assoluto”: l’obbligo dovrebbe essere limitato alle “mansioni libere, che non necessitino cioè di idonea formazione”, in quanto “l’obbligo di attribuire al lavoratore mansioni che necessitino di adeguata formazione significherebbe infatti imporre al datore di lavoro un ulteriore costo economico” (Trib. Roma 24 luglio 2017).
Dunque, non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale, ma solo quelle compatibili con le competenze professionali del lavoratore o quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza (Cass. 31521/2019).
In definitiva, la giurisprudenza ha evitato di attribuire al terzo comma dell’art. 2103 c.c., secondo il quale il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, una valenza estensiva dell’obbligo di repêchage fino al punto da obbligare il datore di lavoro a provvedere alla formazione necessaria perché il lavoratore possa essere utilmente impiegato in altre mansioni al fine di evitare il licenziamento.
Il caso del gruppo di imprese
Nell’ipotesi in cui l’azienda sia parte di un gruppo di imprese, è pacifico l’orientamento della Suprema Corte secondo cui “non può pretendersi dal datore di lavoro di dimostrare anche l’impossibilità di occupare il lavoratore presso altre Società in qualche modo da lui controllate (ma costituenti soggetti diversi)” (Cass. 12645/2003; in senso conforme, tra le tante Cass. 1527/2003; Trib. Milano 16 luglio 2008; C. App. Milano 10 settembre 2010).
Infatti, come ribadito anche dalla più recente giurisprudenza, per essere configurabile un obbligo di repêchage nell’ambito del gruppo, non è sufficiente un collegamento economico-funzionale tra imprese, ma è necessaria la sussistenza di un unico centro d’imputazione del rapporto di lavoro, che ricorre ogniqualvolta vengano accertati i seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società (Cass. 29179/2018; Cass. 1656/2020). La presenza di tali elementi dovrà essere rigorosamente provata dal lavoratore e verrà valutata dal giudice di merito.
L’ONERE DELLA PROVA
In tema di ripartizione dell’onere probatorio è condivisibile l’orientamento secondo cui, se è pur vero che “il datore ha l’onere di provare, mediante elementi presuntivi e indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte”, d’altra parte, “tale prova non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repêchage”, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato” (Cass. 3040/2011; in senso conforme Cass. 6559/2010; Cass. 4299/ 2013).
In ogni caso, ove sia accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, l’impossibilità di un suo ricollocamento, la mancata allegazione da parte del lavoratore di una posizione lavorativa disponibile dovrebbe rafforzare tale quadro probatorio indiziario (Cass. 12794/2018; Cass. 5996/2019; C. App. Catania 57/2020). Allo stesso modo, qualora, “in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell’impresa, il lavoratore alleghi posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata, nel riferito contesto, dal giudice al fine di escludere la possibilità di repêchage” (Cass. 30259/2018).
Dalla giurisprudenza emerge dunque chiaramente la rilevanza sul piano probatorio della condotta, anche processuale, del lavoratore.
Nuove assunzioni
La legge non prevede espressamente un divieto di assunzione dopo il licenziamento, ma secondo la giurisprudenza la mancata assunzione per la stessa qualifica per un congruo periodo successivo al licenziamento è sicuramente una buona prova indiziaria dell’impossibilità di procedere a repêchage.
Comunque, l’eventuale assunzione di personale con contratto a termine nello stesso periodo di tempo in cui è avvenuto il licenziamento non è di per sé sufficiente a dimostrare il mancato adempimento dell’obbligo di ripescaggio: nella sentenza n. 909 del 7 aprile 2017, la Corte di appello di Milano ha escluso la violazione dell’obbligo di repêchage nel caso di una assunzione a termine per sostituzione, in quanto “la diversità di inquadramento… e la differente tipologia del contratto (se a termine) non consentono di effettuare utili raffronti per concludere su una concreta possibilità di ricollocazione” del licenziato (nel caso di specie, si era proceduto ad una nuova assunzione a tempo determinato per sostituire un altro dipendente momentaneamente assente avente diritto alla conservazione del posto).
Di questo avviso anche il Tribunale di Roma che, con Ordinanza del 27 ottobre 2014 ha ritenuto non essere stato violato l’obbligo di repêchage nel caso di un’assunzione con contratto a tempo determinato avvenuta poco prima del licenziamento, in quanto tale tipologia contrattuale escluderebbe l’obbligo per il datore di proporre la posizione al lavoratore come valida alternativa al licenziamento.
IL SISTEMA SANZIONATORIO
Quanto al regime sanzionatorio, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 trova applicazione l’art. 3, comma 1 del D.lgs. 23/2015 secondo il quale, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di un’indennità di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
Per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 continua ad applicarsi l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato nel 2012 dalla cd. riforma Fornero, che prevede due differenti regimi di tutela nel caso di licenziamento per GMO illegittimo. Nel caso di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, ovvero nel caso in cui sia evidente l’assenza di uno dei presupposti legittimanti il recesso per giustificato motivo oggettivo (i.e. le ragioni poste a base del licenziamento e l’impossibilità di repêchage) si può avere la reintegra del lavoratore con un risarcimento di 12 mensilità al massimo dell’ultima retribuzione globale di fatto. Nella seconda ipotesi di illegittimità rientrano tutte le “altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo”, per le quali è prevista una sanzione esclusivamente risarcitoria tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
La giurisprudenza ha chiarito che in considerazione del disposto normativo dell’art. 18 Fornero, secondo cui in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il giudice “può” applicare la tutela reintegratoria attenuata esclusivamente in caso di “manifesta insussistenza del fatto”, deve ritenersi che l’intenzione del legislatore sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria. Pertanto, in caso di mancato assolvimento dell’onere di repêchage, il giudice, ove ritenga che la reintegra sia eccessivamente onerosa per il datore, può applicare la tutela indennitaria ex art. 18 comma 5 Stat. lav. (Cass. 10435/2018; nella specie, la Corte, avendo accertato l’effettiva sussistenza del motivo di licenziamento – ristrutturazione con esternalizzazione dell’attività – ha confermato l’applicazione della tutela indennitaria in considerazione della carenza probatoria dell’obbligo di repêchage).
A ciò si aggiunga che secondo la giurisprudenza la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” deve intendersi come una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso. Pertanto, nel caso in cui il datore fornisca una prova non sufficiente della impossibilità di impiegare il dipendente in diverse mansioni, non può parlarsi di “manifesta insussistenza” del fatto, con la conseguenza che va applicata la sola tutela risarcitoria (Cass. 7471/2020; Cass. 26460/2019).
CONCLUSIONI
Abbiamo visto come l’adempimento dell’obbligo di repêchage da parte del datore sia fondamentale prima di procedere a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, si tratta, come ribadito anche dalla giurisprudenza, di un obbligo che non deve essere inteso in maniera eccessivamente rigida e tale da chiedere all’imprenditore uno sforzo irragionevole, che possa comportare un’alterazione dell’organizzazione aziendale o oneri economici ed organizzativi eccessivi. Infatti, al pari del diritto alla conservazione del posto di lavoro da parte del dipendente, la libertà di iniziativa economica privata costituisce un valore di rilevanza costituzionale.
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