Last Updated on September 16, 2021
Di: Avv. Wanda Falco
Una delle questioni più spinose in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è sicuramente l’adempimento dell’onere della prova del repêchage (sul punto si veda il nostro approfondimento “Cos’è l’obbligo di repêchage e cosa dice la giurisprudenza”).
Sembrerebbe, infatti, ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il datore di lavoro deve provare l’impossibilità di ricollocare il dipendente in altre posizioni disponibili in azienda, senza alcun onere di collaborazione del lavoratore nell’accertamento di un possibile repêchage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli possa essere utilmente ricollocato.
Tuttavia, la giurisprudenza tende a dare molta rilevanza sul piano probatorio alla condotta, anche processuale, del lavoratore e a non dare per scontato che nuove assunzioni dopo il licenziamento siano indice di non genuinità dell’impossibilità di repêchage.
Vediamo nel dettaglio alcune recenti sentenze sul punto.
Repêchage e onere della prova: rilevano “solo” le posizioni indicate nel ricorso dal lavoratore
Come anticipato, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente spetta al datore di lavoro la prova dell’impossibilità di ricollocare il dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (Cass. 6084/2021).
Trattandosi di prova negativa, però, è sufficiente che il datore di lavoro fornisca una prova di tipo indiziario o presuntivo al fine di persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (Cass. 4672/2019).
Tuttavia, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il dipendente medesimo, in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell’impresa, indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predettorepêchage con conseguente sostanziale ribaltamento dell’onere della prova (Cass. 30259/2018; Cass. 15401/2020).
Inoltre, una volta accertata l’impossibilità di ricollocare il dipendente, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile corrobora il quadro probatorio prospettato dal datore (Cass. 12794/2018; Cass. 5996/2019).
Si pensi al recente caso della store manager del punto vendita di Napoli che nel ricorso aveva manifestato interesse a essere ancora riutilizzata in una delle sedi della Campania o del basso Lazio rispetto alle quali la società aveva dato adeguatamente prova dell’impossibilità di ricollocazione; in sostanza, l’interesse sotteso all’impugnazione del recesso risiedeva nella possibilità di essere ancora utilizzata presso i punti vendita presenti in due ben precise aree geografiche. Pertanto, in considerazione della delimitazione dell’indagine processuale sollecitata dalla dipendente, la Corte ha confermato la legittimità del licenziamento ritenendo adempiuto l’obbligo di repêchage da parte del datore (Cass. 7360/2021).
Obbligo di repêchage e nuove assunzioni
Non è espressamente previsto un divieto di assunzione dopo il licenziamento, ma secondo la giurisprudenza la mancata assunzione per la stessa qualifica per un congruo periodo successivo al licenziamento è sicuramente una buona prova indiziaria dell’impossibilità di procedere a repêchage.
In ogni caso le eventuali assunzioni avvenute dopo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non costituiscono necessario indice di non genuinità dell’impossibilità di repêchage.
Ciò avviene, in particolare, qualora le nuove assunzioni:
- riguardino personale, anche di livello inferiore, con capacità ed esperienze professionali diverse ed eterogenee rispetto a quelle del dipendente licenziato;
- riguardino personale con mansioni equivalenti, ma siano effettuate dopo un lasso di tempo ragionevolmente tale da far ritenere che esse siano motivate da esigenze aziendali sopravvenute e non collegate al recesso.
Si consideri ad esempio il caso in cui la società aveva provveduto ad assumere 10 dipendenti a distanza di più di sei mesi dal licenziamento per GMO – circostanza idonea a far ritenere che fossero sopravvenute nuove esigenze – e aveva assegnato agli stessi mansioni di tecnici specializzati non affidabili al licenziato, considerato che, pur avendo egli svolto mansioni analoghe 10 anni prima, erano subentrate tecnologie nuove e complesse(Cass. 11413/2018).
In sostanza, non rilevano tutte le mansioni anche inferiori dell’organigramma aziendale, ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza (Cass. 31520/2019).
Non esiste, infatti, un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro. Ne consegue che non sono rilevanti le assunzioni avvenute nell’imminenza del recesso qualora attinenti ad altre professionalità.
È stato, pertanto, ritenuto legittimo il licenziamento dell’addetto al laboratorio di produzione di generi alimentari, a nulla rilevando l’assunzione di un pasticciere avvenuta pochi giorni dopo il recesso (Cass. 7218/2021).
Analogamente è legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche se il datore poi proceda alla riorganizzazione delle risorse interne e, per periodi limitati, all’impiego di nuove risorse mediante contratti di somministrazione o contratti a termine stagionali. Tale condotta non è, infatti, equiparabile all’assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale e, pertanto, non comporta violazione dell’obbligo di repêchage (Cass. 19731/2018).
Il datore di lavoro per una più economica gestione dell’impresa a seguito di un protratto periodo di crisi aziendale e di difficoltà di mercato, ben può ridimensionare l’organico, redistribuendo le mansioni al personale residuo, oppure ricorrendo, per tempi assolutamente limitati, a risorse esterne ingaggiate per via interinale o con contratti a termine.
Anche il ricorso al lavoro straordinario si spiega in questa ottica, atteso che l’esborso per le maggiorazioni salariali dovute ai lavoratori impiegati in extra time è senz’altro inferiore ai costi per il mantenimento di una unità di personale assunta a tempo indeterminato (Corte d’Appello di Salerno, sentenza del 23/12/2015).
Conclusioni
Negli ultimi tempi la giurisprudenza, fermo restando che l’onere della prova del repêchage incombe sul datore di lavoro, ha chiarito alcuni interessanti aspetti relativi alla correttezza di tale adempimento.
In particolare, è ormai superata l’idea che una nuova assunzione dopo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia necessariamente indice di non genuinità dell’impossibilità di attuazione del repêchage dichiarata dal datore di lavoro.
Inoltre, non è di poco conto il comportamento anche processuale del dipendente: indicare la possibilità di essere utilizzato in altre sedi in una precisa area geografica comporta una delimitazione dell’indagine processuale che consente di ritenere adempiuto l’obbligo da parte del datore che dimostri che quelle posizioni non siano disponibili. Se il dipendente, poi, non allega le posizioni in cui avrebbe potuto essere reimpiegato, la sua omissione non fa altro che corroborare la prova (anche solo indiziaria e presuntiva) fornita dal datore.
“