Mobbing: è necessaria la prova dell’intento persecutorio

Last Updated on October 13, 2021

Di: Avv. Wanda Falco

Secondo l’art. 2087 c.c., norma cardine del sistema della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, il datore è tenuto a garantire l’adozione di tutte le misure idonee a tutelare la salute fisica e psichica dei propri dipendenti. Tale obbligo impone all’impresa di evitare tutti quei comportamenti che possano creare un ambiente di lavoro ostile che rischia di incidere sull’integrità psico-fisica del dipendente.

A tal riguardo, si sente spesso parlare di mobbing inteso come condotta del datore di lavoro, del superiore o del collega, sistematica e protratta nel tempo, che si risolve in reiterati comportamenti ostili di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione e l’emarginazione del dipendente, con lesione del suo equilibrio psico-fisico e della sua personalità.

Occorre, tuttavia, fare molta attenzione all’accertamento del mobbing in quanto non basta la prova di comportamenti vessatori, ma il lavoratore deve provare anche l’elementopsicologico del mobbing ovvero l’intento persecutorio.

Vediamo nel dettaglio cosa dice la giurisprudenza.

Nozione di mobbing e onere della prova del dipendente

Il mobbing designa un complesso fenomeno che consiste in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, la cui prova è a carico del lavoratore:

a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente;

b) l’evento lesivo della salute psico-fisica del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta mobbizzante e il danno all’integrità psico-fisica del lavoratore;

d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio: i comportamenti datoriali devono essere il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass. 6079/2021).

In altre parole, il mobbing non si esaurisce nella sommatoria di comportamenti già vietati dalla legge, ma presuppone un elemento psicologico aggiuntivo, ossia l’animus nocendi, che rende vietati i comportamenti altrimenti leciti e aggrava il significato giuridico nonché sociale di comportamenti già vietati e per i quali l’ordinamento già assicura tutela: è necessario un complesso di azioni che, in quanto convergenti verso un fine ultimo vessatorio, ed organizzate in sequela, oltre ad arrecare un maggior danno, perseguono un intento di degrado che il singolo atto non sarebbe altrimenti in grado di conseguire (Cass. 32381/2019).

Ai fini della configurabilità del mobbing, dunque, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subìto la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica.

In sostanza, la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi non consente di per sé di affermare, laddove il lavoratore stesso non alleghi ulteriori e concreti elementi, l’esistenza effettiva di un comportamento complessivamente vessatorio in danno del dipendente. Non ci si può, dunque, limitare a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma occorre evidenziare, a fronte di una prospettazione in termini di trattamento complessivamente vessatorio, concreti elementi a sostegno della dedotta sussistenza di un disegno preordinato alla prevaricazione (Cass. 7487/2020; Cass. 10992/2020).

Casistica

Si pensi al caso della dipendente del comune che lamentava di aver subito mobbing per il fatto che il superiore gerarchico non la salutava e le correggeva gli atti da lei redatti e per la mancata partecipazione in qualità di esperta alle riunioni di giunta: tali circostanze, come evidenziato dalla Suprema Corte, non denotavano emarginazione della lavoratrice, documentando unicamente la difficoltà nei rapporti lavorativi e non costituivano assolutamente prova di una condotta persecutoria anche perché era emerso che la dipendente non aveva subito demansionamento, avendo continuato a svolgere le funzioni di responsabile del servizio personale e organizzazione (Cass. 29767/2020).

Analogamente è stato escluso il mobbing nel caso in cui il direttore generale in una sola occasione abbia insultato pesantemente un dipendente davanti ai suoi colleghi abusando del suo ruolo e della sua funzione, non potendo tale condotta isolata essere sintomo di un intento persecutorio. Inoltre, condotte reputate dal dipendente come “non normali” quali il cambio di stanza, la mancata firma di pareri o atti, l’omessa convocazione per direttive, in realtà rientrano nell’ambito di un utilizzo lecito della discrezionalità propria del dirigente: tali comportamenti ben possono essere giustificati da necessità di espletamento del servizio e, ove pure fossero derivati da rapporti tesi e conflittuali fra le parti, non sarebbero idonei ad integrare gli estremi di un intento persecutorio e a costituire un’univoca strategia mobbizzante (Cass. 10043/2019).

Accanto ai casi di rapporti di lavoro “difficili”, si registra di frequente quello dei dipendenti che lamentano “persecuzioni disciplinari” ovvero di essere destinatari di una serie di contestazioni e sanzioni disciplinari ingiustificate atte a configurare ipotesi di mobbing.

Sul punto la giurisprudenza ha precisato che una successione di contestazioni e provvedimenti disciplinari non è automaticamente indice di una condotta persecutoria del datore, nemmeno nel caso in cui questi provvedimenti si siano rivelati, a seguito di una procedura di impugnazione, illegittimi. Affinché questi comportamenti possano costituire indice di una condotta assimilabile al mobbing, infatti, è necessario ottenere la prova concreta della finalità persecutoria (Cass. 22288/2019: nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso che i provvedimenti adottati dal datore nel tempo avessero carattere persecutorio, ingiurioso o offensivo, essendo basati su fatti non pretestuosi, anche se poi giudicati per varie ragioni illegittimi in sede giudiziale).

Recentissimo è il caso della dipendente che lamentava il mobbing ravvisato nel clima avvelenato creatosi nell’ambiente di lavoro a causa della convinzione della donna di essere stata illegittimamente privata della posizione di responsabilità ricoperta per tanti anni e di aver subito una persecuzione disciplinare laddove invece una buona parte delle sanzioni irrogate si era rivelata legittima: mancava la prova di una strategia di attacco mirato nei confronti della lavoratrice, caratterizzata da intento persecutorio ed esplicitata attraverso condotte vessatorie sistematiche e reiterate (Cass. 6079/2021).

Recente è anche la pronuncia che ha escluso il mobbing in presenza di una mera “sottoutilizzazione” del dipendente motivata dalla necessità di attendere che l’ufficio di assegnazione fosse dotato di adeguati strumenti informatici e che fossero specificati i compiti inerenti alle funzioni normativamente assegnate all’ufficio. In tal caso, infatti, dai tempi tecnici necessari per l’avvio delle attività del nuovo ufficio poteva desumersi l’assenza di un intento doloso (Cass. 5472/2021).

Conclusioni

Alcune recenti sentenze di legittimità hanno riacceso l’attenzione sulla problematica dell’accertamento del mobbing, un tema di grande interesse per le aziende.

Ormai è frequente sentire dipendenti che lamentano di essere mobbizzati, ma bisogna fare molta attenzione a non abusare di questo termine: non tutte le condotte datoriali percepite come odiose o offensive dal lavoratore sono riconducibili a questa fattispecie, essendo necessaria una prova rigorosa da parte del dipendente non solo delle condotte mobbizzanti, ma anche della lesione della salute, del nesso causale e dell’intento persecutorio.