Last Updated on March 2, 2021
Di: Avv. Wanda Falco
L’emergenza epidemiologica da Covid-19 tra i diversi effetti ha prodotto anche quello di determinare il sorgere di nuove possibili fattispecie di illecito disciplinare.
Emblematico è il caso della dipendente licenziata perché assente dal lavoro a causa dell’isolamento fiduciario dopo una vacanza in Albania.
Si tratta di comportamenti del lavoratore inediti e determinati dalle vicende legate all’emergenza Covid-19.
Vediamo, pertanto, nel dettaglio il percorso argomentativo del giudice.
Covid e isolamento fiduciario: licenziata dopo il viaggio all’estero
Il caso è quello di una lavoratrice che dopo le vacanze estive trascorse in Albania aveva dovuto osservare, al suo rientro in Italia, un periodo di isolamento fiduciario di 14 giorni prescritto dalla normativa emergenziale al momento vigente (Trib. Trento, ordinanza del 21/01/2021).
In particolare, l’art. 4 comma 3 del Dpcm dell’11/06/2020 aveva disposto che “le persone, che fanno ingresso in Italia con le modalità di cui al comma l, anche se asintomatiche, sono obbligate a comunicarlo immediatamente al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio e sono sottoposte alla sorveglianza sanitaria e all’isolamento fiduciario per un periodo di quattordici giorni presso l’abitazione o la dimora preventivamente indicata all’atto dell’imbarco ai sensi del comma l, lettera b”.
La questione è, dunque, quella di verificare se integri una giusta causa di licenziamento la condotta della dipendente che scelga di fare le vacanze all’estero, pur sapendo di dover osservare al rientro un lungo periodo di isolamento e di non poter, dunque, riprendere a lavorare alla fine delle ferie.
Al riguardo è opportuno ricordare che secondo giurisprudenza consolidata (Cass. 25977/2020; Cass. 13411/2020) la giusta causa si configura quale lesione grave e irreparabile dell’elemento fiduciario, che sta alla base del rapporto di lavoro, costituendo presupposto fondamentale della collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore; ne deriva la necessità di accertare se la condotta addebitata sia in grado di ingenerare il legittimo dubbio circa la futura correttezza degli adempimenti da parte del prestatore.
A tal fine occorre valutare il comportamento del dipendente non solo nel suo contenuto oggettivo (ossia tenendo conto della natura e della qualità del rapporto, del vincolo che esso comporta e del grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate), ma anche nella sua portata soggettiva (vale a dire tenendo conto delle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, dei modi, degli effetti e dell’intensità dell’elemento volitivo dell’agente).
Alla luce di questi principi il giudice di merito ha ritenuto che la condotta, di cui la ricorrente si è resa responsabile e consistita nel porsi colpevolmente nella necessità di rimanere assente dal lavoro per 14 giorni, integrasse una giusta causa di licenziamento.
In ordine al profilo oggettivo, infatti, assume rilievo la durata dell’assenza (14 giorni) e le conseguenti disfunzioni in pregiudizio dell’organizzazione dell’attività produttiva esercitata dalla società datrice. In ordine al profilo soggettivo, occorre considerare la noncuranza che la dipendente ha manifestato nei confronti delle esigenze dell’azienda alle quali ha anteposto i propri interessi personali.
La lavoratrice, infatti, nel momento in cui si recò in Albania per trascorrere le proprie ferie era o, comunque doveva essere, pienamente consapevole del fatto che al suo rientro in Italia non avrebbe potuto tornare al lavoro immediatamente; si è, quindi, posta consapevolmente nella condizione di non poter riprendere il lavoro: avrebbe ben potuto evitare di trovarsi assoggettata a detto obbligo astenendosi dall’effettuare il viaggio in Albania.
D’altra parte esigere che la ricorrente tenesse quest’ultimo comportamento non costituisce un’illegittima limitazione all’esercizio del diritto di fruire delle ferie. Come evidenziato dal giudice, “basti pensare che il soddisfacimento delle esigenze di sanità pubblica, sottese alla necessità di contrastare la perdurante situazione di pandemia, ha comportato per ampi strati della popolazione residente in Italia il sacrificio di numerosi diritti della personalità, in particolare di libertà civile, anche tutelati a livello costituzionale”.
Un precedente simile: il licenziamento del dipendente che si ammala di malaria ogni volta che va in vacanza
Il caso appena esaminato, al di là della peculiarità della fattispecie, pone l’attenzione su un obbligo fondamentale del dipendente ovvero quello di astenersi da qualsiasi comportamento che possa recare danno all’organizzazione e alle esigenze dell’azienda.
La correttezza e la buona fede (cd. obblighi di protezione) che sono alla base del rapporto di lavoro gli impongono, infatti, di evitare di trovarsi in situazioni – anche al di fuori dell’ambiente e dell’orario di lavoro – che possano avere delle gravi ripercussioni sul datore e che possano, dunque, ledere l’interesse di questi alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa.
In tal senso la giurisprudenza si è pronunciata in passato in un caso simile.
Si tratta del caso del lavoratore che abitualmente si recava in vacanza in Madagascar e cheprima della fine del periodo di ferie inviava certificazione medica con la quale attestava la inidoneità al lavoro per periodi di tempo assai lunghi dovuti alla malaria contratta in quello stato (Cass. 1699/2011).
La Cassazione ha ritenuto sanzionabile con il licenziamento per giusta causa la malattia cagionata da un comportamento imprudente del lavoratore.
In tal caso, infatti, il dipendente volontariamente si era esposto al rischio di contrarre la malattia omettendo di contemperare le proprie esigenze e le proprie scelte di vita con le esigenze dell’azienda: “se pure è vero che il lavoratore è pienamente libero nel decidere come e dove utilizzare il periodo delle ferie, è altrettanto vero che siffatta libertà deve essere coniugata, alla stregua dei suddetti principi di correttezza e buona fede, con l’esigenza che le scelte dallo stesso operate in materia non siano lesive dell’interesse del datore di lavoro a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa dedotta in contratto”.
Nel caso di specie, tale doveroso contemperamento non vi era stato affatto non avendo il dipendente provato di avere tenuto una condotta prudente ed oculata per limitare al minimo i rischi ed il pregiudizio per il datore; anzi, vanno evidenziate (ai fini dell’accertamento della legittimità del licenziamento) la pervicacia della condotta, avuto riguardo alla prevedibilissima insorgenza di attacchi acuti di malaria, nonché la consapevolezza da parte del dipendente della sua inaccettabilità per il datore di lavoro, tanto che in una occasione aveva motivato la richiesta di fruizione di ferie con le esigenze di cure della madre ammalata.
Volendo, dunque, trasporre i principi di questo precedente giurisprudenziale in un caso “di attualità”, si potrebbe ritenere legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che scelga di trascorrere le ferie in uno dei paesi esteri “a rischio”, ovvero in cui notoriamente è più alto il rischio di contrarre il Covid-19.
Conclusioni
L’emergenza epidemiologica ha determinato una totale riorganizzazione del mondo del lavoro, a partire dall’incremento del ricorso allo smart working, prima pressoché sconosciuto alle aziende. Non solo. In un clima di particolare tensione e difficoltà organizzativa da parte dei datori di lavoro è sempre più indispensabile la piena collaborazione dei dipendenti senza mai rinunciare alla tutela dei loro diritti e libertà fondamentali. È questa la chiave di lettura della recente pronuncia del Tribunale di Trento: le diverse problematiche connesse all’emergenza Covid, infatti, sono fonte di sempre nuovi comportamenti dei dipendenti, alcuni dei quali idonei a incrinare la fiducia del datore o comunque a lederne gli interessi in misura rilevante.
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